Il 30 dicembre 2015, Stogn, al secolo Pavel Shpak, chitarrista, vocalist e mastermind dei bielorussi Niezgal, decise di farla finita con la vita terrena appendendosi a una corda e andando così all’inferno con le sue stesse mani, a soli ventisette anni, come i grandi della musica. Con Stogn moriva pure la sua band, che lasciava in eredità, oltre a un full length e vari ep, alcune bozze di registrazioni di nuovissime canzoni, che rappresentavano i tasselli di un labirinto maledetto, nascoste nell’oscurità, in attesa di trovare la luce per poter essere rese note a tutti noi peccatori e seguaci della fiamma più nera. Dopo alcuni anni di pettegolezzi e speculazioni sullo stato della band, i Niemaracze e la loro nuovissima etichetta Handful Of Hate, nata nel 2017, decidono di mettere mano sui riff che Pavel lasciò in eredità al mondo dei vivi, cercando di pubblicare quello che sarebbe stato il nuovo disco dei compianti Niezgal, intitolandolo “Stogn Ź Niebyćcia”. Il lavoro è stato davvero folle e malsano, in quanto il lascito era composto prevalentemente da bozze di canzoni formate dalle sole basi di chitarra; sono stati necessari 3 anni di attività sulla parte che comprendeva l’ingegneria del suono e l’attività di registrazione per dare una forma compiuta e coerente ai riff che furono trovati. L’impegno profuso da P.Z., bassista originale della formazione bielorussa nonché autore di tutte le liriche, in collaborazione con membri ospiti del Niemaracz Clan, ha fatto sì che ora possiamo avere tra le mani il vero epitaffio della band, in tutto il suo splendore maligno e perverso. Un testamento irreversibile, un addio compiuto per mano propria, che trasuda sangue e urla il suo senso di disperazione.
” Stogn Ź Niebyćcia ” è un disco di puro black metal oscuro, perverso e malato, violento come questo genere dovrebbe sempre essere, ben suonato ma con una produzione che strizza l’occhio a epoche passate, per quanto acida e ruvida suona. Non ci sono spazi per divagazioni o virtuosismi dei singoli, qui tutto sembra essersi fermato all’alba della creazione degli inferi e l’impatto è davvero pazzesco. Tuttavia chi ascolta i Niezgal sa benissimo dove andare a parare. La riuscita di questo disco è sorprendente, considerate tutte le difficoltà cui si va incontro quando si deve affrontare un lavoro del genere; infatti tutte le parti di chitarra sono quelle originali al 100% e sono state registrate da Stogn in persona poco prima di compiere l’estremo gesto. Ogni bozza di riff è stata inserita in questo full length, creando passo dopo passo una combo di canzoni assassine e colme di una rabbia primordiale, la stessa che probabilmente spinse Pavel a impiccarsi. Il disco si apre con “Stogn I. Ŭzychodzić Miortvaje Sonca”, classica black metal song old school di quasi otto minuti, che viene preceduta da una breve intro dove il vocalist ospite (di cui non si fa il nome) fa il diavolo a quattro con la sua voce malsana mentre scandisce le singole parole in lingua madre. Le melodie sono affilate come una motosega ma trasudano melanconia e tristezza, cosa in comune con le altre composizioni del disco: infatti le linee melodiche delle chitarre sono costantemente sugli scudi, con il loro incedere epico e fiero ma dannatamente appesantito e deluso dalla realtà triste della vita terrena. “Stogn III. Viartańnie Ŭ Bahnu” è un inno al male e rinchiude in sé tutti i dettami della scuola nordica a 360°: ci sono blast e tremolo, ci sono harsh vocals che riesumerebbero i morti della resistenza bielorussa, c’é un arpeggio centrale che spezza l’avanzata delle tenebre per poi sfociare in un melody di chitarra che piange lacrime di sangue.
Sei inni al signore del male che si concludono con “Stogn VI. Suicyd”, guarda caso l’unica traccia cantata da Stogn che, con il suo incedere lento e drammatico, ci fa addirittura sentire un retrogusto gotico, di scuola primissimi Paradise Lost (paragone da prendere con le pinze), e pone definitivamente la parola fine alla storia dei Niezgal. Ora che abbiamo raccontato la genesi di “Stogn Ź Niebyćcia”, possiamo affermare che non si tratta di un capolavoro ma di un buon album di classico black metal old school, con molteplici influenze atmosferiche e deprimenti. La valutazione finale, come giusto che sia, prende nota dell’enorme lavoro che è stato fatto per creare da bozze di riff delle vere e proprie songs, utilizzando per le registrazioni la chitarra originale di Stogn, già morto suicida , e avvalendosi della passione e volontà dei suoi compagni di sventura più stretti di rendere pubblico il suo testamento musicale. E ora, mentre il giovane Pavel cammina tra le fiamme dell’inferno, noi possiamo ascoltare ciò che aveva da dirci; non è mai troppo tardi.