Uada – Cult Of A Dying Sun

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Grandissimo ritorno (in realtà gia uscito da qualche mese) quello dei black metallers di Portland, Uada. Dopo l’esordio col botto con l’acclamato “Devoid Of Light” (2016), i quattro incappucciati dell’Oregon tornano con una delle migliori uscite nel genere del 2018, che si è rivelato un anno davvero ricco di produzioni discografiche di livello pregevole. E questo “Cult Of A Dying Sun” non fa altro che avvalorare tale teoria. Per chi non conoscesse gli Uada: i nostri sono dediti a un black metal di stampo melodico, ipnotico e atmosferico, ingredienti che hanno reso i più conosciuti Mgla un mito nell’ambito di questo sottogenere. Questo nuovo platter è semplicemente il prosieguo del loro debut album e ne riporta gli elementi principali e caratterizzanti a un livello superiore e maturo, mettendo l’accento su coordinate ossessive, oscure e mistiche, abbellito da un mix e mastering finale opera di Arthur Rizk (Inquisition, Power Trip, Cavalera Conspiracy) ed un artwork davvero oscuro e malsano.

Si denota subito una maggiore consapevolezza dei mezzi che i ragazzi hanno a disposizione dalla loro parte nelle composizioni, che diventano ancora più articolate ed esigenti, ad alto contenuto tecnico compositivo, evidenziato soprattutto dall’aumento della durata dei brani stessi, che si aggira intorno agli otto minuti di media (un’ora scarsa per sette brani). L’album parte col piede schiacciato sull’acceleratore con “The Purging Fire”, dove riff di matrice classica e blast beats inferociti lasciano spazio ad aperture in mid tempos conditi da un mix di harsh vocals e growl assatanati, che fanno ben presagire quale sarà il “leitmotiv” di tutto il lavoro. La successiva “Snakes & Vultures” (che ha dato il nome al tour di supporto a questa nuova release, svoltosi la primavera ed estate scorse) è davvero esaltante, un viaggio di quasi dieci minuti in terre spettrali, dove con le note si materializza il demone raffigurato in copertina, facendoci pentire di aver schiacciato play. La musica degli Uada è fatta da lance conficcate nel cuore e nella testa dell’ascoltatore e lo trascina in lande desolate di perdizione psichica, nelle quali non l’attende altro se non un destino disperato. La sola “The Wanderer”, strumentale saggiamente posta al centro del lavoro, riesce a far respirare giusto per qualche minuto, prima che l’assalto riprenda con ancora maggior forza.

Le bordate ossessive e mortali riprendono infatti, come se la tregua fosse stata solo apparente, con “Blood Sand Ash” che, con il suo incedere epico e marziale, conduce l’ignaro ascoltatore al patibolo, tra serpenti, caproni e lune nere, per poi lasciare spazio ai consueti blast beats di quella macchina infernale che porta il nome di Brent Boutte (pregevole il suo lavoro dietro le pelli, efficace e mai invadente). “Mirrors”, posta in chiusura del lavoro, con i suoi oltre dieci minuti di durata, è una vera e propria suite infernale, nella quale si susseguono riff nitidi e melodie spettrali, in una moltitudine di liriche ossessive, che conducono l’ascoltatore alla fine di un disco fiero, indemoniato e rabbioso. Non c’è che dire: il futuro è roseo per questi quattro ragazzi, anche se loro probabilmente preferirebbero sentirsi dire che è nero, nero come l’abisso nel quale ti trascinano con la loro musica pestilenziale.