Il buon Doedsadmiral, in poco più di due mesi, è riuscito a uscire sul mercato con due dischi di buona fattura: il secondo platter dei panzer Nordjevel e quello della sua creatura infernale Svartelder. La curiosità per questo secondo disco effettivamente è stata smorzata dall’uscita di quello dei più iconici Nordjevel che, nonostante le ottime premesse, non è riuscito a bissare il successo del precedente lavoro. Troppa carne al fuoco? Calo di ispirazione per il mastermind che non è riuscito a dosare bene la sua capacità produttiva nelle sue due bands senza prendersi una benchè minima pausa? Ascoltando questo “Pits” diremo che la prospettiva è ben diversa. Se i Nordjevel con il nuovo disco hanno semplicemente scelto la strada più semplice, creando un lavoro a base di freddezza e brutalità ma perdendo la personalità che spiccava nel primo bel disco, (cosa che di certo influirà pericolosamente sulla longevità dell’attuale proposta della band), i Svartelder, in questi trentacinque minuti scarsi, hanno tirato fuori un album che non solo rimane più ispirato rispetto a quello dei fratelli/gemelli ma risulta decisamente più completo, vario e intrigante ascolto dopo ascolto.
Come anticipato, la vita di queste due bands capitanate dal grottesco Doedsadmiral, prosegue su binari paralleli e, a fronte del debut che per entrambe era datato 2016, questo secondo lavoro esce in concomitanza all’alba del 2019 ma sotto diversi auspici. Le luci brillano ora su questa malvagia e depravata creatura, della quale “Pits” rappresenta un tassello solido sul quale poter basare le fortune di domani.
Abbiamo per le mani un lavoro che stupisce nel suo incedere perverso e misantropico, abbracciando il black metal (la definizione risulterebbe riduttiva anche se lampante) e coprendo al contempo una serie di sfaccettature del nostro genere estremo preferito che in molti dischi non troveremo neppure con la lanterna. La formazione annovera tra le sue fila gente di esperienza come il drummer Spektre degli Horizon Ablaze ed ex 1349 e il tastierista Renton già in forza ai conosciuti Trollfest, che svolge un lavoro minuzioso e da protagonista: grazie all’esperienza maturata presso le bands di appartenenza, provenienti tutte dal mondo underground ma con stili assolutamente differenti, riescono a unire le forze e portare ognuno il proprio contributo di idee che, mescolate sapientemente sotto l’attento sguardo del singer, danno origine a sette capitoli oscuri e macabri, che fanno immedesimare passo dopo passo l’ascoltatore in ambientazioni maligne e terrificanti come le segrete di un castello infestato da fantasmi dispettosi.
Come ben sappiamo Bergen, città di provenienza della band, è stata culla di tantissime realtà che con la loro musica hanno dato consistenza all’essenza stessa del black metal, ma gli Svartelder non si limitano a fare un copia incolla di quanto già fatto da chi li ha preceduti e si buttano a capofitto in soluzioni più intricate e dal retrogusto raffinato, dirette ai palati più fini, grazie anche alle elevate capacità tecniche dei componenti della band. La malinconia e l’angoscia sono le sensazioni che trasudano da questi sette capitoli, grazie al sapiente uso del synth, che offre un ventaglio compositivo ben più ampio rispetto alle soluzioni utilizzate sia nei dischi dei Nordjevel che nel primo lp degli stessi Svartelder, dando corpo ad atmosfere sinistre, squarciate dal suono compatto, ruvido e pesante, ma mai zanzaroso e sporco come la tradizione norvegese insegna, delle chitarre.
Qui tutto è calibrato secondo una prospettiva personale, con l’intenzione di proporre qualcosa di nuovo e fresco senza mai tralasciare cattiveria e brutalità, espresse comunque in misura inferiore rispetto al disco di esordio o agli stessi Nordjevel, in favore di atmosfere più consone a un film thriller anziché a uno splatter. C’è intelligenza negli arrangiamenti, che si rifanno spesso e volentieri agli ultimi, più articolati, Emperor o ai Limbonic Art più sfacciati, grazie a un mostruoso lavoro di batteria, in tandem con le tastiere, che fanno capolino sempre nel momento più opportuno, per aumentare la sensazione di terrore che si vuole trasmettere. Le tracce non hanno un titolo ma vengono identificate semplicemente da una scarna numerazione romana, come se i nostri volessero mettere in secondo piano il messaggio lirico e far sì che siano le sensazioni dettate dalla musica a fare da tramite tra la mente della band e quella di chi ascolta.
Un trasporto dettato dalle note, che riescono a spaziare dal classicissimo black metal al thrash più moderno, grazie a riff sincopati e taglienti, con un principio di compressione che rende i suoni più duri e ben definiti. L’idea che balza subito in mente è che si tratti di un concept album, considerata la numerazione delle singole tracce e una copertina che sprigiona negatività e inquietudine ermetica, ma il leader indiscusso della band tiene a dire la sua in merito: “Nonostante ci sia un tema comune che attraversa i testi delle sette tracce, “Pits” non può essere definito un concept album, e non è mai stata neppure una nostra intenzione crearne uno. Di sicuro possiamo definirlo come un album che esplora il dolore e la sofferenza più profondi dell’essere umano: quella difficile battaglia per strisciare fuori dalla fossa della disperazione e tornare al mondo, anche se una volta uscito si scopre che il mondo oggi è deteriorato e marcio, diventando lentamente un qualcosa senza vita e miserabile tanto che, una volta scoperto questo, vuoi tornare in quella che era la tua fossa. Con le nostre precedenti uscite, il primo lp “Pires” e l’ep “Askebundet”, sentivamo che la creatura Svartelder si stava ancora cercando o ritrovando; con “Pits” ci siamo spinti ancora oltre dal punto di vista musicale e compositivo. È più aggressivo e più malinconico dei suoi predecessori, infatti si potrebbe dire che “Pits” è più di tutto ciò che fa di Svartelder quello che è “. Effettivamente le parole di Doedsadmiral non fanno altro che rappresentare la realtà circa ciò che si può ascoltare su questo malato platter che, grazie alla durata media di circa cinque minuti scarsi a canzone, riesce nella sua complessità a essere facilmente fruibile e dà la possibilità di poter apprezzare fin da subito le varie sfumature di ogni capitolo di cui è composto. Ogni canzone ha però qualcosa che dev’essere scoperto gradualmente, come se fossimo all’interno di un labirinto e lentamente ci accingessimo a svoltare gli angoli senza sapere a cosa andiamo incontro. Le composizioni sono basate per la maggior parte su un andamento lento o moderato, nonostante gli up tempos siano presenti quasi sempre (soprattutto nel capitolo “III” e nella bellissima “VI”, vero fiore all’occhiello del disco), ma in maniera decisamente inferiore rispetto a un qualsiasi disco black made in Norway, lasciando spazio a strutture più rarefatte, plumbee e ragionate, con una gran quantità di cambi di tempo: a fare la voce grossa è il drumming di Spektre, che svolge un lavoro egregio per tutta la durata del platter, grazie a tecnicismi che risultano perfettamente amalgamati con il corpo delle composizioni e mai fini a sé stessi.
Il percorso angosciante degli Svartelder parte col capitolo “I”, una tipica traccia di atmospheric black, dove la fanno da padrone le melodie lente e sincopate che creano un’atmosfera sospesa tra la malinconia delle tastiere e le chitarre arpeggiate, accompagnate da una voce volutamente sussurrata sino a esplodere nella durezza classicamente black, con un riffing serrato e un blast ossessivo che spiana la strada al capitolo “II”. Anche in questo caso una traccia in mid tempo, con forti connotati orrorifici, grazie al tappeto di tastiere in sottofondo e alla voce gracchiante che pare recitare l’invocazione di qualche anima nera, progredendo lentamente sino a metà canzone, lasciando spazio ad aperture ariose con un bellissimo melody di chitarra accompagnato da un’ottima sezione ritmica. Col terzo capitolo si evade in territori più classicamente black, con riff thrashy e blast beats come se non ci fosse un domani, per dare spazio alla quarta traccia, che inizia in sordina, con un andamento al limite del progressive, sino a strizzare l’occhio all’avantgarde, risultando il brano forse più articolato e particolare di tutto il disco. Esplode poi il capitolo “V”, sapientemente collegato al brano precedente, anche se in questo caso abbiamo a che fare con una song fortemente epica ed evocativa, dove si riascolta piacevolmente qualche sprazzo di blast ma con influenze prog che possono ricordare, seppur lontanamente, gli Arcturus più violenti e sinistri. Tutte le canzoni hanno come minimo comune denominatore una forte ispirazione da elementi tendenti al progressive metal, con cupe atmosfere dettate dalle tastiere e dai tempi intricati di batteria: i capitoli “VI” e “VII” sono il sunto di tutto il disco e in queste due tracce la band riassume tutto quanto espresso nelle prime cinque, dando un saggio di capacità tecnica sopra le righe e creatività nel creare atmosfere malsane e oscure a tutto tondo. Questo è un disco dove tutto viene sapientemente collegato: non c’è separazione tra una traccia e l‘altra, come appunto dovrebbe essere in un’opera divisa in capitoli, e se inizialmente si potrebbe pensare ad un ascolto eccessivamente monotono, complesso e inaccessibile, dopo vari tentativi, si comincia a capire la logica di questo viaggio nella mente umana più disperata, riuscendo pure a captare, seppur flebili, dei raggi di luce. Un disco che è un vero e proprio percorso di crescita, dove la qualità è tangibile: vale la pena scavare sotto la superficie, ascolto dopo ascolto, dall’inizio alla fine senza pause, per scoprire tutta la complessità e i dettagli della musica espressa dagli Svartelder.