Confesso che avevo dato gli Inner Shrine quasi per dispersi, in qualche enigmatico labirinto mentale, alla ricerca di loro stessi. Facendo qualche passo indietro, la band toscana muove i suoi primi passi a metà degli anni novanta, bazzicando quello che poteva essere definito una sorta di doom addolcito ma contraddistinto da forti influenze classicheggianti, più mistico rispetto ad altre bands dello stesso genere, mettendo in certo qual modo nella sua musica l’eleganza della Firenze di un tempo. Non si può negare che la band iniziò col botto, registrando tre dischi che per il metal underground italiano sono fondamentali e dovrebbero essere presenti nella collezione di chiunque si professi metallaro in terra italica. Mai banali, gli Inner Shrine battezzarono il primo trittico di lp come la “Trilogia Alchemica”, una sorta di concept che legava i primi tre dischi, contraddistinguendo ogni singola uscita con un colore, per esattezza, in ordine cronologico, il nero, il bianco e l’oro. Proprio con quest’ultimo disco la band tocca la propria vetta compositiva assoluta: era il 2004 e “Samaya” irrompeva sul mercato diventando un’autentica gemma di metallo italiano, grazie alle sue sonorità oscure e magiche che, ricordando quelli che furono i Therion del capolavoro “Theli”, univano in maniera pressoché perfetta e con nobile eleganza le basi metal con la musica classica, in un connubio indissolubile che rappresentava la quadratura del cerchio. A distanza di ben sei anni, l’uscita di “Mediceo” portò un’evoluzione netta nel sound proposto dalla band, così come nei temi trattati dalle composizioni che, abbandonando il misticismo dei primi lavori, si concentrò sulle tematiche storiche della propria città: Firenze, il Rinascimento e, come da titolo, la famiglia Medici. Ulteriore cambiamento ci fu nelle liriche, con l’abbandono dell’inglese in favore del latino, più consono alla narrazione di certe tematiche, ma la cosa più eclatante fu l’abbandono quasi totale del metal: in pratica, “Mediceo” è un album prettamente di musica classica, grazie pure all’utilizzo esclusivo di voci soprano con l’accantonamento del gutturale/narrato maschile. L’album non ebbe un riscontro entusiasmante da parte della critica, anche per via della sua complessità, difficoltà d’assimilazione e diversità rispetto alle opere già pubblicate dal combo fiorentino. Sarà per questo motivo che nel 2013, con “Pulsar”, la band fà un leggero passo indietro, pubblicando un disco che già dalla copertina e dal logo segna un ulteriore cambio di rotta, con uno scenario apocalittico alla “Mad Max” che funge da biglietto da visita alle tematiche trattate, con un concept sulla fine del mondo e la successiva creazione di una nuova specie. Questo lavoro degli Inner Shrine si fa portatore di un gothic metal “futuristico” ed apocalittico che segna anche il ritorno di uno dei membri fondatori, il batterista Claudio Tovagli: i presupposti sono ottimi ma il contenuto, nonostante qualche buono spunto, non convince del tutto e, a dispetto del ritorno a sonorità più prettamente gotiche, grazie a voci maschili (eccessivamente filtrate) e qualche base metal, non riesce a scuotere gli addetti ai lavori, che accolgono freddamente questo lavoro dei fiorentini, forse per un generale calo d’ispirazione o forse per la produzione di basso livello, che rendeva l’ascolto piuttosto ostico. Con lo spettro della fine che sembrava aleggiare sempre più minaccioso sulla band, è con una certa sorpresa che accolgo questo nuovo “Heroes”, che arriva a ben sei anni di distanza dal suo predecessore.
La cover minimale, rappresentante un’armatura con il logo della band, abbandona lo stile futuristico di “Pulsar”, il che mi fa sorgere qualche domanda su un nuovo cambiamento nella direzione musicale: contatto i nostri e mi viene spiegato che, grazie al rientro dello storico bassista Leonardo Moretti, che va così a riformare il trittico fondatore con Liotti e Tovagli, il ritorno a sonorità più prettamente metal è venuto naturale. Questa volta la tematica trattata nel disco è ancora differente: si tratta di un concept sulla figura dell’eroe tra il periodo antico e quello moderno, una sorte di ode a tutti gli eroi della storia. E la musica? Qui il discorso si fa interessante e non poco. “Heroes”, possiamo dirlo, porta la band indietro di quindici anni, risultando essere a tutti gli effetti il diretto successore di quel capolavoro assoluto chiamato “Samaya”. Le atmosfere che si respirano in questa nuova fatica finalmente sono tornate a essere oscure, lugubri e tetre ma al contempo, rispetto al passato, vi sono momenti che trasmettono un’aura di speranza, grazie all’ariosità delle composizioni. Dopo la sinistra intro “Donum”, irrompe l’opener “Akhai” e le emozioni che trasmette sono esattamente quelle appena descritte. Il ritorno delle chitarre metal e la voce tra il sussurrato e il growl dettano i tempi, prima di lasciare spazio alle eteree melodie delle voci femminili, in netto contrasto con la strofa: un brano simile non si sentiva dal terzo lavoro della band e già da solo vale l’acquisto del disco. Si potrebbe pensare ad un fuoco di paglia ma non è così: la sognante “Ode Of Heroes” funge da apripista alla epica “Doom”, un brano dannatamente epico, lungo quasi sette minuti, che al suo interno contiene atmosfere intime in grado di riportarci alla magnificenza delle nostre terre natie dei tempi che furono. Come confermatoci in anteprima, la band sta pure lavorando a un cortometraggio che prenderà il nome da questo brano e che analizzerà il concetto di eroe dalle nostre origini all’epoca moderna. Con la successiva “Firebringer” i nostri tirano fuori dal cilindro un altro pezzo da novanta, spingendo sempre forte sulle orchestrazioni e continuando il discorso intrapreso con “Akhai”, grazie all’alternarsi tra cantati maschili e cori classici femminili, ma con maggiore insistenza su questi ultimi. “Sakura” chiude il disco con un’andamento drammatico e straziante, suggellato dal narrato tenebroso che, se fosse stato più utilizzato in tutto il disco, avrebbe sicuramente conferito maggiore enfasi a ogni pezzo, sottolineando il contrasto oscurità/luce. In conclusione, dopo gli inediti, c’è pure spazio per la rivisitazione di una song contenuta in “Mediceo”, “Cum Gloria”, che non viene totalmente stravolta ma rigenerata con maggiore potenza e dinamica, risultando più affascinante rispetto alla versione originale.
“Heroes” non può essere definito un capolavoro ma di sicuro un buon disco, che segna il ritorno di una band importante per la scena underground italiana, che per troppi anni ha mancato il bersaglio: questa volta, grazie a una formazione ben rodata nella quale la chimica è forte, si è riusciti a cogliere nel segno. L’album risulta un po’ di mestiere ma l’ispirazione pare stia tornando quella di una volta e, se i nostri continueranno a percorrere questo sentiero oscuro, il prossimo disco potrebbe essere una sorpresa per tutti e un’opportunità per lanciare la band a un livello superiore. Unici appunti da fare riguardano, da un lato, la produzione, che non fa rendere al meglio le parti prettamente metal, con suoni di chitarra in secondo piano a tutto vantaggio delle orchestrazioni e dei synth, e, dall’altro, l’utilizzo troppo centellinato delle voci maschili. Una maggiore vocazione metal, con chitarre più pesanti e taglienti, unite a un utilizzo più insistito delle voci maschili, in un contesto produttivo migliore, avrebbe a mio giudizio reso il disco ancora più incisivo e appetibile a un’utenza non esclusivamente di nicchia. Tuttavia prendiamo questo nuovissimo “Heroes” come un buon auspicio per il futuro, sperando che la band prosegua il percorso di ritorno alle origini, magari tenendo conto anche dei primi due bellissimi lavori. Non possiamo quindi fare altro che consigliare a chiunque l’ascolto di questo platter, che potrebbe rivelarsi una sorpresa per molti. Bentornati.