Ho deciso, per questo disco farò una recensione informale, altrimenti io non ne uscirò vivo e voi non sarete incoraggiati ad ascoltarlo. Perchè è davvero un gran bel disco e merita. Ma partiamo con calma e dall’inizio: ricevo il promo, incomincio ad ascoltarlo, dopo due minuti spengo tutto e passo ad altro; non mi aveva colpito, mi sembrava qualcosa di già sentito, l’ennesima apologia del death/prog in cui tanti si cimentano ma in pochissimi riescono. Niente di più sbagliato perchè le quattro tracce di cui è composto l’lp, anzichè cadere e marcire nel dimenticatoio, incominciavano la lunga marcia, tipo Esercito degli Estranei, alla conquista non di Grande Inverno ma del mio stereo. I Forlet Sires sono un quintetto di stanza a Winterhud, in Svizzera, attivo dal 2013 e da allora hanno pubblicato una demo e due album. Dalla lettura distratta delle note che accompagnano il promo due sono le cose che mi colpiscono, la prima è quando leggo: “recorded LIVE at Gaswerk”… caspita, penso, fanno sul serio i ragazzi, e la seconda: “A complex amalgam of Atmospheric Black Metal and Doom Metal, with some Prog tendencies”. Ora, se tu PR della Cruel Bones Records mi descrivi il gruppo in questo modo non mi fai capire un tubo sullo stile, è tutto troppo generico e quindi mi costringi ad un altro ascolto e poi ad un altro e ad un altro ancora e mi spingi a scrivere che in realtà è un gruppo avantgard, e qui mi blocco perchè a me i gruppi avantgard fanno paura dato che, come capirete bene, sono i più difficili da recensire. Comunque avantgard ci sta… sì, ma avantgard come, direte voi? Ecco, a me ricordano tantissimo i Gorguts, meno intricati e più melodici e doom. Ho reso l’idea? Insomma… Ascoltando il disco con calma e tempo a disposizione, si intuisce dalle prime battute che c’è un grosso lavoro sotto: i Forlet Sires sanno il fatto loro e che siano ottimi musicisti lo si capisce sin dalla prima traccia, “Carnage And Candor”, di ben dodici minuti, che si apre con un giro western e si chiude con un urlato black del singer Kilian Schmid, interpretando egregiamente quattro o cinque stile diversi tra cui, come dicevo, il prog, il doom e l’atmosferic black, con la stessa nonchalance con cui i Metallica ormai alternano “Ride The Lightning” a “El Diablo”, passando per “St. Anger”.
La traccia in realtà contiene al suo interno più parti che si amalgamano perfettamente tra di loro e il collante è reso dalle precise partiture dei due chitarristi Tobias Kalt e Sebastian Vogt, i quali riescono nel loro intento di ordire precise trame oniriche, ora più lente ed ora più veloci, ma in entrambi i casi sostenute dalla poderosa batteria, perno dell’intera opera, frutto del magistrale lavoro del drummer Daniele Brumana. L’ascolto prosegue con “Where Nothing Shall Thrive”, ideale continuazione di ciò che si è appena concluso: la struttura portante della traccia è costituita dal lodevole lavoro del bassista Matthias Menzi, che riesce a sottolineare e sorreggere le articolate strutture create dall’alternanza chitarra/batteria. E, pur se il minutaggio rimane consistente (nessuna traccia scende infatti sotto i sette minuti), nulla è lasciato al caso o utilizzato come semplice riempitivo ma tutto confluisce in un mantra poderoso e mortale che ci accompagna alla terza prova dell’album “Dead Skin”, tiratissima sin dalle prime note, che si apre con un giro di chitarra davvero azzeccato, che fa da contraltare alla poderosa voce del singer, che proprio in quest’occasione tocca livelli altissimi. Ritmi serrati e fiato sospeso fino all’ultima nota: riescono davvero ad esprimere il meglio di loro stessi sia a livello compositivo che tecnico. Che mazzata ragazzi.
“We Roam This World Alone”, ovvero la calma prima della tempesta: si parte con tempi molto dilatati, spazi larghi per riprendere respiro e poi giù ancora bordate di assoli in faccia, con alcuni giri davvero ben fatti. In un crescendo continuo diventa difficile non lasciarsi trasportare dall’ipnotico incedere del pezzo ,che sembra non finire mai, riuscendo a convincermi ancora di più delle ottime capacità di questi ragazzi che, devo dire la verità, mi hanno spiazzato e piacevolmente sorpreso. Consiglio quindi l’ascolto a tutti coloro che non si accontentano del solito death duro e puro ma sono pronti ad intraprendere un viaggio verso nuovi ed intricati orizzonti musicali.