I Kampfar si possono definire la black metal band norvegese 2.0 per eccellenza. Ma può essere corretto oggi catalogare i Kampfar nel, seppur ampio, anzi immenso mondo black metal? O meglio, lo è mai stato? Se si fa un passo indietro di oltre vent’anni, quando la band esordì con i seminali “Mellom Skogkledde Aaser” e “Fra Underverdenen” per poi, dopo sette anni di silenzio, tornare con il buon “Kvass” catalizzando le attenzioni sulle proprie capacità e personalità e sulla potenza sprigionata live, di sicuro la catalogazione, termine bruttissimo che implica una sorta di limite interpretativo alle emozioni che un disco può trasmettere, poteva essere viking black norvegese nella sua pura essenza, di pregiata fattura, con qualche inserto folk, rozzo ma mai eccessivamente veloce. “Mare” in un certo senso passò a uno step successivo, soprattutto grazie a una migliore produzione e a quell’elemento naturale che poi diventerà una sorta di marchio di fabbrica della band di Dolk, cosa che “Djevelmakt” e “Profan” hanno ulteriormente sottolineato, rafforzando lo status della band, sino a farla diventare uno dei maggiori esponenti della scena estrema europea. I Kampfar tuttavia sono uno di quei gruppi che non si sentono mai arrivati, mai sazi ma neppure ingordi: questa volta si sono presi ben cinque anni di pausa per mettere in ordine le idee e poter capire sin dove potessero spingersi, guardando oltre le proprie colonne d’Ercole per fare qualcosa di inedito e grandioso. Come un fulmine a ciel sereno che squarcia il cielo illuminando una notte di tempesta, all’alba di questo maggio arriva sugli scaffali dei negozi “Ofidians Manifest”, nient’altro che il nuovo e il migliore disco dei Kampfar nella loro ultra ventennale carriera. Ripercorrendo la carriera dei nostri, nonostante fossero palesi le superiori qualità della band rispetto alla media, non avrei mai immaginato che il combo di Fredrikstad avrebbe avuto una maturazione esponenziale a questi livelli, creando un suono che sfugge a qualsiasi definizione e che potrebbe essere chiamato semplicemente “Kampfar sound”, e dimostrando così tanta personalità da essere riconoscibili solo dopo pochi istanti d’ascolto, cosa più unica che rara in ambito estremo. Forse nessuna band storica norvegese (a parte gli Enslaved, che hanno subito una vera e propria trasformazione e, in alcuni episodi, i Mayhem più deliranti), è riuscita ad avere un’evoluzione stilistica impavida e importante come quella di Dolk e compagni, capaci di allargare i propri confini e di esplorare mondi diversi, cercando di crearne alcuni paralleli ma senza mai tradire le proprie origini.
“Ofidians Manifest” è ciò che i Kampfar, con fedeltà e coerenza, sono nel 2019, dopo aver camminato incessantemente per venticinque lunghi anni, facendo tesoro del proprio passato ed esplorando ogni oscuro lato delle loro menti. Il disco trasuda emozioni quasi dark, sensazioni malinconiche e di disperazione che vanno a occupare uno spicchio di quello spazio un tempo dedicato in gran parte a sonorità epiche dal retrogusto vichingo. Il tutto sapientemente composto in un opera divisa in sette atti, che vivono ognuno di vita propria ma sono egregiamente legati l’uno con l’altro, in maniera quasi indissolubile, senza necessariamente dare vita a un concept album, in un’unione carnale tra anima e corpo rafforzata dagli elementi naturali che fungono da perfetto contesto armonioso e danzante. Questo nuovo lavoro dei Kampfar è concepito per essere suonato per intero: i pezzi sono parti di un edificio in costruzione, dalle fondamenta al tetto, in una continua e naturale evoluzione che rende le canzoni i mattoni di una casa, tutte importanti e tutte fondamentali. Se si lascia partire il disco dalla prima all’ultima traccia, l’ascoltatore vestirà una gran quantità di abiti, passando dal chiodo ai jeans elasticizzati del thrasher, dai drappi neri della morte ai pantaloni in pelle, dal petto nudo sporco di sangue al viso decorato dal classico facepaint, fino alle pellicce più consone a un vichingo: un viaggio lungo tutte le influenze che negli anni hanno contribuito a rendere unico e speciale il sound dei Kampfar. “Syndefall” non si fa pregare, lasciando solo una manciata di secondi a un’intro sinistra che funge d’apripista a una bordata black d’altri tempi: una violenza inaudita che solo a metà brano riesce a calmarsi, dando spazio a un sound più riflessivo e consono a chi vuole rifiatare dopo una lunga battaglia. E qui inizia a fare da mattatore Dolk, la cui prova su questo disco rasenta la perfezione, specie se paragonata alle più grezze performance degli esordi. Sarà lui il vero protagonista e il valore aggiunto di ogni composizione, grazie ad un variegato registro vocale che va a toccare numerosi stili, spaziando dall’uno all’altro con una scioltezza disarmante: allo scream acuto, gelido e aggressivo, si uniscono harsh vocals più roche e oscure, ma è nelle clean vocals che il nostro eclettico frontman tocca davvero livelli di eccellenza, grazie a una timbrica particolare, così imperiosa e urlata da far impennare l’epicità narrativa senza mai perdere aggressività, dando una maggiore dinamica e profondità ai ritornelli e sfruttando tutte le potenzialità melodiche di questi, che ora hanno una resa decisamente più orecchiabile rispetto al passato. “Dominans” rappresenta il passo più coraggioso nell’intera discografia della band. L’inizio con i synth apre a una voce femminile di nostra conoscenza (la bellissima Agnete Kjølsrud, già nota per la sua collaborazione con i Dimmu Borgir nel singolo “Gateway”): un brano lento ed evocativo da girone dantesco, mistico e pregno di atmosfere malsane e inquietanti; una perla nera di rara e pregiata fattura, dove il connubio delle due voci che si confrontano e si scontrano di continuo evoca la lotta infinita tra bene e male. Proseguendo l’ascolto ci si imbatte in una combo di brani da panico: “Natt” ed “Eremitt” rappresentano ciò che di meglio abbiano scritto i nostri vichinghi norvegesi negli ultimi album. La prima è un tripudio di ritmiche black/thrash che vanno immediatamente in contrasto con la classe vocale di Dolk, che fa sfoggio di tutto il suo repertorio, dai cori liturgici allo scream e urla pulite dannatamente guerrafondaie. Pazzesco pure il groove creato dalla sezione ritmica, che plasma un lavoro egregio senza mai mettersi troppo in mostra ma fungendo da collante fondamentale del pezzo. Anche in “Eremitt”, tassello fondamentale dell’intera opera, la fanno da padrone i continui cambi di tempo e la bravura vocale di Dolk: in questo pezzo riemergono i connotati puramente vichinghi della band, grazie soprattutto a cori che trasportano l’ascoltatore direttamente su un Dreki in balia delle onde, facendogli assaporare l’aroma tipico di una battaglia trionfale.
Le ultime due tracce continuano a spiazzare ma al contempo rendono giustizia al livello qualitativo impressionante raggiunto dalla band. “Skamløs!”, dopo un incipit di puro black metal norvegese, si apre a continui cambi di tempo e rallentamenti, con una sempre martellante base ritmica. C’è spazio anche per un bell’assolo, prima che le vocals sapientemente sovrapposte anticipino il magnifico epilogo affidato a un pianoforte malinconico e straziante. La conclusiva “Det Sorte” introduce Marianne Maria Moen, secondo ospite del disco, per un brano psicologico ed epico, un continuo vortice che riporta indietro nel tempo tra battaglie senza fine, lacrime, sudore e sangue. Il break centrale thrashy e la coda finale in dissolvenza, tra violini, archi, tastiere e la sempre presente voce di Dolk, pongono fine in maniera sognante ed astratta a quello che definirei uno dei più spettacolari ritorni in campo estremo di questa prima parte del 2019. “Ofidians Manifest” è un disco completo, che sfiora la perfezione: eclettismo, perseveranza, abnegazione sono solo alcune parole che possono definire oggi i Kampfar che, senza lanciarsi, come molti illustri colleghi, nella gara senza senso a chi suona più veloce, rude e cattivo, continuano con costanza la loro ricerca sonora, spingendosi sempre oltre, sin dove può arrivare il loro Draki tra le onde di mari inesplorati.