“Urban Hell Rhythmics” può essere definito uno di quei dischi piacevoli da ascoltare, quanto è piacevole un drink dopo una stressante giornata di lavoro. Avete presente la classica scena dei film americani, dove il protagonista torna a casa incazzato e la prima cosa che fa è prendere una lattina di Bud ghiacciata dal frigo oppure riempirsi il bicchiere di un buon bourbon? Ecco, proprio quella situazione lì, ma siccome noi siamo metallari ignoranti ai quali poco importa della raffinatezza, entriamo a casa e piazziamo sul piatto il nuovo (in realtà pubblicato in autonomia nel 2018) quinto full length dei canadesi Black Pestilence, che già sappiamo ci allieteranno per una mezz’oretta con il loro genuino e volgare black/noise punk metal di pessimo gusto. Il loro sound apocalittico riuscirà a farci evadere dalla triste realtà che ci esaspera ogni giorno per portarci ai confini della realtà, in un mondo distopico al limite dello steam punk, dove Ken Shiro si prende a schiaffoni con un Mad Max incazzatissimo, in una lotta feroce all’ultimo sangue. Nessuna novità in casa Black Pestilence nè dal punto di vista della formazione nè per quanto riguarda le scelte stilistiche, che come di consueto vanno a pescare a piene mani in tutto ciò che di più sudicio appartiene agli anni ottanta, facendo un gran casino, tra black metal acerbo alla Venom e varie influenze che vanno dal punk più spudorato al noise più acidulo.
Fumo rossastro, inquinamento, funghi atomici, maschere antigas, grattacieli diroccati e popolazione mondiale decimata: ecco che atmosfera trasmette in poche parole “Urban Hell Rythmics”. Anche se c’è di più, ossia solido metal suonato in maniera semplice e lineare ma dannatamente efficace: i rigurgiti più underground si incontrano per una luna di miele in lande altamente radioattive con la spregiudicatezza del punk, senza mai perdere di vista l’immediatezza e la melodia, soprattutto nei ritornelli che risultano essere sempre vincenti grazie alla loro facile assimilazione già dai primi ascolti. Se a tutto ciò aggiungiamo una sezione ritmica modello base, che non va a intaccare l’efficacia dei pezzi ed anzi riesce a renderli snelli e dall’impatto killer, il gioco è fatto ed ecco a voi, avvolto in un foglio di giornale datato 26 aprile 1986, direttamente da Pryp”jat’, un bel regalino atomico e altamente instabile. La realtà è opprimente, lo sappiamo; tornare dal lavoro dopo aver subito trenta rotture di palle crea istinti omicidi irrefrenabili. Con i capelli spettinati e la cravatta allentata entri a casa, butti tutto per terra, e dopo aver preso l’iconica birra gelata in frigo schiacci play e fai sì che “Artificial” ti dia il benvenuto nella terra rossa, tra Buggy che corrono impazzite nell’aria inquinata. La camicia ormai diventa un tutt’uno con il corpo reso appiccicaticcio dal sudore e la birra ci schizza addosso, perché stare fermi con i Black Pestilence è praticamente impossibile. “D.I.Y.666” ribadisce immediatamente il concetto con il suo fare impertinente, alla Misfits, e un ritornello che più ignorante non si può. Due riff di numero per 2’e 50’’ di arroganza che danno spazio a “Hymns For The Black Mass”, altro pugno in bocca con guantino borchiato; stessa soluzione precedente: chitarre graffianti, basso pulsante e voce acida che lasciano al ritornello il compito di far sbattere testa e birre al cielo. Nulla di nuovo, nulla di trascendentale, ma una semplice brutalità espressa attraverso un black/thrash punk apocalittico suonato con perizia e dedizione alla causa. I brani, corti e tutti up tempo, sottolineano che non c’è tempo da perdere, l’headbanging non aspetta.
C’è spazio per qualche episodio più ragionato: “Digital Degeneration”, con un gran riff di chitarra che riesce a risultare più vario della media ed un bel ritornello subito memorizzabile; e la seguente “Devil Of My Life”, estratto hard rock dai connotati satanici. Tuttavia i folli canadesi non hanno ancora finito, ed ecco che in penultima posizione, quando ormai siamo giunti alla quinta lattina di birra post lavoro e la cravatta è stata posizionata a mo’ di fascia alla Rambo, “Deny The System” ci stupisce col suo riff pseudo noise, quasi garage nel suo incedere, guadagnandosi la palma di pezzo più irriverente e sperimentale di tutto l’lp. “Urban Hell Rhythmics” è un disco semplice, diretto e genuino, da ascoltare senza pretesa alcuna per occupare quella che può essere una mezz’ora di svago alternativo oppure come sottofondo per una bevuta ignorante tra amici, senza rinunciare a una buona dose di metallo arrogante, suonato con bravura e perizia e ottimamente prodotto, per una band che fa dell’impatto e dell’ignoranza il suo pane quotidiano: una corsa su una Buggy lanciata a velocità infernale alla conquista dell’ennesima centrale nucleare abbandonata.