Una cosa è certa: fare un disco black metal all’alba del 2020 che non sia totalmente derivativo e composto di filler almeno per il 50% della tracklist, è un’impresa, se non impossibile, alquanto ardua. Tutto quello che c’era da dire è stato detto, quello che c’era da scrivere è stato scritto, ma i Patronymicon non ci stanno e non si danno per vinti. Il combo svedese, sul campo di battaglia da ormai dieci anni, arriva al fatidico terzo disco con una formula collaudata di black metal acerbo che ha origini lontane, con venature nostalgiche che segnano con evidenza e vigore ogni singolo brano che compone pure questo nuovissimo “Ushered Forth By ClovenTongue”. Nulla di nuovo, sia ben chiaro, ma tutto dannatamente attuale grazie all’ispirazione di questa malefica creatura del mastermind e fondatore N. Sadist, che nello stravolgere la formazione della band ha trovato un equilibrio interno che forse mancava nei due precedenti dischi, fornendoci oggi una prestazione matura che ci trasporta in un diabolico viaggio verso gli inferi, senza ritorno. A cosa ci troviamo davanti lo si evince dalle prime battute del platter che non lesina emozioni forti, una spirale di odio e malvagità che viaggia a mille kilometri orari, seminando vittime sul suo tragitto, anche se queste parole effettivamente non rendono giustizia al certosino lavoro svolto da questi bifolchi pitturati. Il quintetto di pinguini in questione dai loro strumenti insanguinati tira fuori il meglio che si possa ascoltare in questa prima metà abbondante del 2019 per quanto riguarda il black metal di scuola svedese vecchio stampo, con qualche spruzzata del caro buon vecchio thrash metal tagliente come gli artigli di qualche demone svolazzante e rozzo come uno scaricatore di porto. “Ushered Forth By Cloven Tongue” esce dopo sei lunghi anni dal suo buon predecessore “All Daggers Towards The Sky”, ma dopo aver ascoltato ogni singolo brano di questa nuova fatica possiamo effettivamente dire che l’attesa è stata abbondantemente premiata! I Patronymicon dimostrano che nel 2019 si può suonare black metal puro senza mai annoiare, dando spessore e profondità a ogni singola composizione con soli tre strumenti: chitarra, basso e batteria, il tutto abbellito da una voce che è una via di mezzo tra uno scream e un growl sofferto e sporco, mai fastidioso ma avvincente e carico di rabbia.
Pertanto nessuna bastardizzazione del sound, che rimane immacolato come le fiamme dell’inferno; le cinque bestie di satana svedesi detestano la modernità (c’è chi dice che tra di loro comunichino ancora con i segnali di fumo e girino per casa con mutandoni di pelliccia e clave da antenati), loro fanno sul serio e non hanno intenzione di fare un passo indietro. In un disco come questo la second wave è servita su un piatto di pietra e un calice di sangue insieme alle due prime mine antiuomo che portano il nome di “Haissem” e “The Funeral Of A Passive God”, due facce della stessa medaglia che rappresentano in breve ciò che nel disco possiamo trovare, ovvero mazzate alla velocità della luce così come pezzi più cadenzati e ragionati, al limite del marziale, il tutto senza mai perdere di vista quella melodia epicheggiante tessuta in maniera sapiente e continua dalle chitarre incrociate. Tuttavia è l’attacco di “XI Kings XI Curses” che ci fa capire che non ce n’è per nessuno: una black metal song con riff thrashy affilati come scatolette di tonno, con echi dei migliori Dissection: Da questo punto in poi non ci sarà più tregua e la macchina da guerra conierà un riff killer dopo l’altro lasciandoci atterriti e immobili davanti a cotanta devastazione. Basta ascoltare un brano come “Lightless Flames”, di fronte al quale dobbiamo alzare le mani per paura che le bordate di blast beat non provengano dalla batteria suonata egregiamente da Y. Nifl ma dalla mitragliatrice di un cecchino posizionato nel palazzo di fronte.
Il mix e la produzione sono coprotagonisti, insieme alla musica, dando un vero e proprio valore aggiunto al disco. Suoni potenti e all’avanguardia, moderni ma non modernisti, mai avvezzi a inutili contaminazioni futuristiche, che lasciano spazio solamente a potenza e brutalità; ingredienti semplici ma fondamentali come un caffè la mattina presto. La band sembra divertirsi nel macinare riff su riff, unirli con parsimonia e creare composizioni a paragone delle quali risulta oggi difficile trovare qualcosa di meglio sul mercato nello stesso genere: una freschezza compositiva che pare di essere tornati nel 1994 con una macchina del tempo artigianale. C’è odore di zolfo e fuliggine, la band tira bombe a mano senza sosta, anche quando cerca di rallentare privilegiando atmosfere post nucleari, come nelle tre ultime ispiratissime songs, dove le due asce fanno la parte dei leoni dentro una gabbia tra un riffing brutale a melodie oscure e deprimenti. Molti gruppi oggi cercano una svolta nel proprio sound ammorbidendosi, intraprendendo soluzioni più vicine al mercato o ammiccando a generi che attirano maggiormente le masse; i Patronymicon non solo non accolgono questo tipo di atteggiamento, ma raddoppiano la dose di cattiveria, convincendoci a fare con loro un balzo negli inferi per scoprire che, in fin dei conti, laggiù non si sta così tanto male.