I Feralia erano festività dell’antica Roma dedicate ai morti, nel corso delle quali si svolgevano cerimonie pubbliche con offerte in onore dei Mani, le anime dei defunti, generalmente benevolenti ed a volte identificate con gli stessi dei degli inferi. I Feralia sono anche un progetto black metal proveniente dall’Italia settentrionale, che si presenta all’audience di settore con questo “Helios Manifesto”, esordio direttamente sulla lunga distanza, che vede la luce in versione cd, cassetta e digitale grazie alla collaborazione tra l’ucraina Vacula Productions, la nostrana Io Pan Records e la Realm And Ritual. Il concept pare ispirato a Helios, divinità della religione greca, che simboleggia il ciclo dell’astro solare: ogni mattina sorge ad oriente dalle acque del fiume Oceano, che circonda tutta la terra, e guida nel cielo il carro splendente del sole, trainato da quattro cavalli che lanciano fuoco dalle narici, e percorre la volta celeste da oriente a occidente, per tramontare a sera immergendosi nuovamente nelle acque del fiume. Il mito dell’eterno ritorno che incarna il ciclo della vita e della morte, suggerito dalla successione dei titoli dei pezzi (concezione, vita, morte, abisso, rinascita; incastonati tra un’intro e un’outro acustiche che fanno da cornice al tutto) come metafora ed immagine della via iniziatica che l’uomo può percorrere per raggiungere la consapevolezza di sé e divenire il suo stesso dio, tema che viene affrontato attraverso riferimenti agli insegnamenti crowleyani, alla filosofia thelemica e al suo principio fondamentale “love is the law; love under will”. La formazione è composta da Krhura al basso, Raijinous alla chitarra e alle tastiere e Ignotus Nebis alla batteria e vede la partecipazione dietro al microfono di Tibor Kati, già nei Negură Bunget e nei Sur Austru, un elemento che lancia subito la band in una dimensione internazionale e che può fungere anche da catalizzatore, attirando la curiosità degli ascoltatori (anche se stiamo pur sempre parlando di black metal underground).
E dai due gruppi citati i Feralia sembrano prendere qualche suggestione a livello musicale, così come una certa spiritualità pagana e un certo misticismo di stampo naturalista, elementi distintivi di buona parte della scena black dell’Europa orientale. Per il resto il sound è saldamente ancorato alla classica tradizione norvegese, declinato con un piglio abbastanza malinconico e romantico, che sfocia a tratti in un tribalismo a suo modo epico: insomma, per intenderci, i Feralia guardano molto più agli Ulver che ai Darkthrone, perché il loro sound non è tanto gelido e mortifero quanto piuttosto avvolgente ed atmosferico. Ciò che più colpisce è la capacità dei nostri, che sembra davvero naturale e non forzata, di fare proprio quel suono così distintivo e di riproporlo attraverso un’ottica quanto più possibile personale, in modo tale che l’ascoltatore si ritrovi immerso in un clima familiare ma con alcune piccole diversificazioni che ne mantengono costantemente desta l’attenzione. Ad esempio il basso, strumento spesso sacrificato nel black metal, è qui invece in primo piano in molte occasioni, innervando specialmente i passaggi più violenti e furiosi con il suo pulsare costante, che dà profondità al suono e richiama il respiro stesso della terra; oppure le linee di chitarra striscianti e disperate di “Death” (a mio avviso l’episodio migliore del lotto, insieme all’opener “Conception”), che in un disco depressive sarebbero sembrate quasi scontate e che in questo contesto “narrativo” invece acquistano spessore tragico, tanto da risultare perfino sorprendenti, pur nella loro classicità; o ancora l’invocazione “O Sun, O Father”, ripetuta verso la fine del disco: anch’essa è ben nota e addirittura abusata ma qui è carica di un pathos che la rende incredibilmente drammatica e funesta e al tempo stesso carica di una crudele e fatale speranza, grazie all’interpretazione vocale di Kati, in questo frangente veramente sentita e teatrale. Per farla breve, si tratta di quei particolari che permettono di distinguere un ordinario compitino da un’opera viva e fresca, quei particolari che fanno la differenza.
Diceva il mai troppo compianto Lucio Fulci: “Alcuni mi ritengono completamente pazzo perché tento sempre di uscire dal genere, tento di essere un terrorista del genere. Sto dentro, ma ogni tanto metto la bomba che tenta di far deflagrare il genere. Infatti ne ho trascorsi tanti, di generi…”. Ecco, per i Feralia si potrebbe quasi dire la stessa cosa: anche loro stanno nel genere, il black metal classico e old school di chiara estrazione norvegese, ma ogni tanto fanno esplodere le loro piccole bombe (quei particolari che ho cercato di descrivere qui sopra) per scuoterne un po’ le fondamenta, senza devastarle. E questa non è certamente una cosa da poco. In conclusione “Helios Manifesto” è un lavoro valido, una riuscita rivisitazione di luoghi comuni da tempo consolidati, intelligente e profonda, senza inutili velleità o cervellotiche pulsioni sperimentali. da ascoltare.