Probabilmente i frequentatori più attempati della scena black nordeuropea avranno sentito parlare dei Denial Of God, band danese capitanata dal chitarrista Azter e dal singer Ustumallagam, attiva dai primissimi anni novanta. I nostri negli anni d’oro del black metal diedero alle stampe una manciata tra demo ed ep, per poi approdare al debutto sulla lunga distanza soltanto nel 2006 con l’album “The Horrors Of Satan”, seguito nel 2012 dal successore “Death And The Beyond”. Nonostante la produzione quantitativamente molto più scarsa rispetto a quella di molti altri più illustri colleghi e la provenienza un po’ defilata rispetto a quello che allora era il fulcro dell’ondata black che invase il mondo metallico, ovvero la famigerata Norvegia, i nostri seppero ritagliarsi uno spazio nei cuoricini neri degli ascoltatori, grazie ad uno stile piuttosto particolare (specie per gli standard dell’epoca), che mescolava le sonorità più ortodosse della così detta “second wave”, che allora sembrava davvero inarrestabile, con un appeal decisamente orrorifico e suggestioni provenienti dal più classico heavy metal ottantiano, declinato con uno spiccato gusto per le melodie epiche e cariche di pathos drammatico, pescando variamente e a piene mani tanto dai Mercyful Fate quanto dai primi Manowar e trovando una loro personale via alla quale attribuirono la definizione di “black horror metal”, azzeccata visto l’approccio quasi “cinematografico” della loro musica. Continuando a privilegiare la qualità rispetto alla quantità delle produzioni, i Denial Of God ci hanno fatto attendere oltre sette anni per dare un seguito al loro secondo album ma, dopo aver dato alcuni ascolti a questo nuovo “The Hallow Mass”, che esce grazie ad una collaborazione tra Osmose Productions e Hells Headbangers Records, si può ben dire che sia valsa la pena aspettare, dal momento che si tratta a mio giudizio del miglior lavoro partorito dal combo danese (del quale fa parte in pianta stabile dal 2005 il batterista Galheim) ed uno dei migliori album in cui mi sia capitato di imbattermi nel corso del 2019.
Cosa rende questo disco così bello? Punto primo: la semplicità. I Denial Of God non si lasciano andare ad inutili e sterili esercizi di stile, come di recente succede troppo spesso in ambito black, con risultati francamente cervellotici e dimenticabilissimi, benchè inspiegabilmente incensati da carrozzoni di critici fastidiosamente impegnati a fare gli originali a tutti i costi. I nostri invece si concentrano sull’aspetto emotivo e colpiscono nel segno con pochi riff sempre ispiratissimi (nemmeno così pochi, in realtà!) e assoli a profusione, davvero in grado di catturare l’ascoltatore e di trasportarlo in un universo oscuro popolato da streghe e malefiche presenze. E lo fanno ricorrendo ad una scrittura perfino minimale e a strutture classiche; insomma pochi ed elementari ingredienti, ben noti ma mescolati con incredibile maestria per un risultato finale che, come si suol dire, è superiore alla semplice somma degli elementi che lo compongono, fin dalla mastodontica opener che nei suoi quindici minuti di durata, intervallati da un break centrale dal sapore cimiteriale, mette immediatamente in chiaro gli intenti di una band che appare da subito in forma smagliante. Punto secondo: i brani non sono mai eccessivamente veloci, perchè, come tutti sanno, non c’è bisogno di suonare a mille all’ora per fare ottime canzoni. Intendiamoci, le parti aggressive e tirate non mancano e i Denial Of God sanno perfettamente quando è il caso di premere sull’accelleratore ma dosano con sapienza queste sfuriate, compresa anche qualche fuga in territori più thrasheggianti (ad esempio il riff centrale di “The Shapeless Mass”), preferendo privilegiare un andamento decisamente epico e magniloquente, sostenuto da melodie sempre efficaci, spesso malinconiche, ed ulteriormente sottolineato da sprazzi atmosferici ben veicolati da un uso molto intelligente delle tastiere.
Ed è così che prendono forma cavalcate notturne degne della più maestosa “caccia selvaggia” come “Undead Hunger” e la conclusiva “The Transylvanian Dream”, veri picchi emotivi del disco, insieme alla ballata nera “The Lake In The Woods”. Punto terzo: Ustumallagam canta. Sembra strano ma è effettivamente così. Non si limita ad ululare e sbraitare e, pur utilizzando uno screaming roco piuttosto canonico, riesce a dare grande espressività interpretativa alle parti vocali, narrando con trasporto e coinvolgimento le storie d’orrore che sono alla base delle liriche. E si tratta di un valore aggiunto per l’intera durata del disco, che pure è ben bilanciato tra parti cantati e ampie fughe strumentali. Punto quarto e ultimo: i Denial Of God hanno piena consapevolezza dei loro mezzi. Come detto in precedenza, non inventano nulla di nuovo (basti pensare che il tremolo la fa veramente da padrone, anche se sempre combinato con uno spiccato gusto heavy) ma ci offrono un album vario e diversificato e dimostrano personalità da vendere, a differenza della stragrande maggioranza dei gruppi che popolano il sempre più affollato sottobosco underground intasandolo con uscite a raffica di dubbia utilità. In questo mare di mediocrità è però ancora possibile, con pazienza e un po’ di fortuna, riuscire a scovare qualche prodotto valido. L’unico difetto del lavoro è forse la produzione un po’ deficitaria e non potentissima: ma di fronte a tanta e tale ispirazione si tratta davvero di una pecca di poco conto. In definitiva “The Hallow Mass” è un disco che riconcilia con un genere, il black metal, i cui sostenitori troppo spesso confondono la carenza di idee con la “purezza del culto”, e riesce ad essere addirittura sorprendente nel suo costante richiamo alla tradizione, sia quella più canonicamente black che quella metal tout court; un disco che quindi potrà piacere sia alle frange più estreme dell’audience metallica che a quelle più legate alle sonorità di matrice heavy. “Beyond The Great Vast Forest / Time Will Unlock These Ancient Doors”.