Vorremmo chiedere a Ole Alexander Myrholt cosa mangia a colazione, perché questo “Solens Soenn Og Maanens Datter”, uscito nell’appena passato dicembre, è esattamente il quinto full length in poco meno di tre anni, senza contare i quattro ep che danno ulteriore volume a una discografia che dal 2017 sta già iniziando a diventare sterminata. Facendo un piccolo passo indietro, i Myrholt vedono la luce per la prima volta nel 1992. Nel corso degli anni, la band fu conosciuta con molti nomi, Tyrant, Eternal Eclipse, Deceased (tra il 1992 e il 1994) e Tremor (dal 2005 al 2011), con il quale furono incisi due full length. Il nome attuale della band è in realtà semplicemente quello del suo fondatore e unico membro, a cui piace sottolineare che “Myrholt è la vecchia scuola black metal. Niente di più, niente di meno“. Poche parole ma efficaci. Ed è incredibile che pure questa volta abbiamo a che fare con un platter che ci sbatte in faccia senza mezzi termini del sanissimo e ignorante black metal di stampo norvegese, che mai si dimentica di ammiccare a più svariate contaminazioni, senza snaturare la sua essenza più becera e malvagia. Avendo ascoltato gli altri dischi dell’artista di Mosjøen supponiamo di sapere in anticipo cosa ci aspetta ma è sempre un piacere venire smentiti anche dalle cose che si danno per ovvie. “Solens Soenn Og Maanens Datter”, diviso in sette capitoli per un totale di cinquanta minuti, è un disco di puro black metal, su questo non ci piove, ma è anche una maiuscola prova di forza di questo compositore che, nonostante l’innumerevole quantità di materiale prodotto negli ultimi tempi, dimostra di possedere un’ispirazione davvero smisurata, creando un album che è sì estremo ma che si lascia contaminare da influenze eclettiche, post black, ambient, folk e via dicendo.
Tutto ciò si inizia a percepire nel secondo capitolo di questo lavoro. Infatti, se l’opener è ciò che di più classico ci possa essere in un disco di black metal norvegese, grazie al binomio blast/tremolo, a ritmi tiratissimi e a svariati cambi di tempo (elementi che da sempre hanno contraddistinto i dischi di Myrholt), “Kapitel II” inizia nel più semplice ed efficace dei modi ma poi si articola in rallentamenti ein giri di chitarra epici al limite del folk, e infine sprofonda in ambientazioni atmosferiche che avvolgono soavemente l’ascoltatore trasportandolo in mondi paralleli. Non si tratta di un esempio isolato, considerato che anche nella conclusiva e devastante “Kapitel VII”, vero e proprio manifesto di ciò che la band può arrivare a comporre oggi, a smorzare la furia cieca del blast, atmosfere soffuse e oscure si impadroniscono della song, sino a sfociare in territori che sarebbero più familiari a band post black. Tutto ciò non contamina gli episodi più diretti ma sta a significare che Myrholt non è sinonimo di oltranzismo fine a sé stesso e sottolinea il grandissimo lavoro compiuto dall’artista che, tassello dopo tassello, riesce a registrare quello che può essere definito il suo miglior lavoro, sicuramente quello più ricco di sfaccettature. Il disco si snoda vorticosamente, centellinando però le sfuriate blast in favore di up e mid tempos che valorizzano il versante più epico ed evocativo delle composizioni, come in “Kapitel III” e nella successiva “Kapitel IV”, una vera e propria litania al maligno, grazie alle atmosfere rarefatte e plumbee e a chitarre ossessive, che senza sosta tessono ragnatele di note sulle quali le stridule vocals si inseriscono a pennello.
Spetta a “Kapitel V” alzare i giri del motore e aumentare il tasso di violenza del disco: si tratta di uno dei migliori episodi dell’intera discografia della band, un up tempo basato su una cavalcata classicamente metal di puro stampo anni novanta, con un riff ciclico incalzante che riuscirebbe a far fare headbanging pure a uno stoccafisso. Com’è normale che sia, le influenze e probabilmente i tributi in un disco mai possono mancare e la penultima traccia in scaletta ci fa piombare in quell’horror metal dalle venature doom e goticheggianti di stampo prettamente italico che tutt’ora vive grazie a band come Abhor, Abysmal Grief e Blood Thirsty Demons: un riffing lento, pesante, accompagnato da synth oscuri e medievali, sorregge la struttura di questo pezzo imponente che, tra citazioni di Candlemass e Death SS, riesce a ricavarsi un ruolo di nicchia all’interno del disco. Certo, non stiamo parlando del disco definitivo o della pietra miliare black metal del nuovo millennio ma “Solens Soenn Og Maanens Datter” suona in maniera organica ed efficiente ed ha tutte le carte in regola per ritagliarsi uno spazio all’interno di una piacevole giornata metallica. Composizioni mai banali si susseguono ad altre più canoniche ma sempre coinvolgenti, anche se spesso e volentieri la produzione, scarna, low-fi e decisamente spartana, non aiuta in quanto a potenza e resa sonora; ma stiamo comunque parlando di black metal underground e pertanto va benissimo così. Un ulteriore passo in avanti rispetto ai precedenti lavori, che rimane nella stessa scia concettuale, spaziando tra battaglie di guerrieri pagani, androni di castelli stregati e candide foreste innevate.