Disco davvero ostico questo “Dark Energy”, quarta fatica sulla lunga distanza del progetto solista italiano Staurophagia (che dovrebbe significare all’incirca il “nutrirsi di croci e crocifissi”), nato nel 2015 e dietro al quale si cela il mastermind e factotum Staurophagus. Un lavoro di non immediata assimilazione, che chiede all’ascoltatore di calarsi nel giusto stato d’animo, di sintonizzarsi sulla sua lunghezza d’onda, e che sarebbe preferibile godersi in assoluta solitudine, magari in penombra o nel buio più completo della notte. “Dark Energy” contiene ben quattordici tracce, registrate in un arco di tempo che va dal 2018 al 2020, e travalica i confini di varie sonorità, unendo, per usare le parole dello stesso Staurophagus “il black metal al dark ambient e alla sperimentazione, per trovare nuove sonorità usando synth modulari, chitarre microtonali e radio a onde corte”, con un concept altrettanto ad ampio spettro, che intende esplorare sia i freddi spazi interstellari sia le profondità insondabili della psiche umana, secondo Staurophagus “due cose molto simili, entrambe oscure, piene di misteri e orrori”. Una sorta di “odissea nello spazio” dunque (per citare il celebre film di Stanley Kubrik che trattava tematiche in qualche modo affini), che ci conduce in un viaggio alla ricerca di qualcosa che forse avremo paura di trovare. L’elemento black, quando è preponderante, come ad esempio nell’opener “Moribund Holiness” o in altri episodi sparsi nella tracklist, riesce ad essere al tempo stesso violento ed evocativo e richiama in maniera inequivocabile quel filone atmosferico pregno di misticismo cosmico che vede nei Darkspace i suoi indiscussi pionieri e in gruppi come Midnight Odyssey, Astral Silence e Mare Cognitum tra i più credibili interpreti.
Si scivola però spesso in territori non troppo contigui, che confinano con certo post-rock, tra ampie fughe strumentali che si lasciano irretire da tentazioni quasi psichedeliche e tendono a creare un feeling dilatato e sospeso, sempre molto oscuro, con una voce che resta assolutamente in secondo piano, quasi a non voler turbare la meditazione che la musica suggerisce con una superflua presenza umana. Le divagazioni ambientali sono un elemento fondamentale dell’opera e hanno nelle trame dei sintetizzatori la loro chiave di volta, mantenendo però sempre fede al mood generale del disco, senza scadere mai in minimalismi o in eccessive ripetizioni che in questo caso sarebbero stati probabilmente fuori luogo: si va da momenti più eterei e rarefatti ad altri più densi, dalla luce di stelle lontane e ormai prossime alla morte all’irresistibile attrazione di giganteschi buchi neri, fino a sfociare nel rumorismo disturbante di “Times Become Meaningless”, sorta di incomprensibile trasmissione radiofonica proveniente da un inconcepibile altrove.
“Dark Energy” è senza dubbio un disco al quale si addicono parole come “sperimentazione” e “avanguardia” e per questo motivo è molto difficile da giudicare. Pur lodandone il coraggio ed il fascino che indubbiamente riesce a tratti a coinvolgere completamente l’ascoltatore, ritengo però che abbia anche qualche evidente (almeno per me) limite. Si tratta infatti di un lavoro davvero eterogeneo, nel quale si passa spesso da un genere ad un altro nel breve volgere di qualche minuto, in alcuni casi in modo quasi brusco, senza la necessaria fluidità ed il giusto amalgama tra le varie influenze musicali che caratterizzano il progetto: insomma si percepisce la voglia di mettere insieme molte cose (perché, in effetti, lo spazio è forse infinito e comunque vasto al di là di ogni esperienza umana, e quindi contiene realtà diversissime tra loro) ma sono convinto che concentrarsi di più su alcuni elementi e svilupparli in modo più omogeneo, magari tralasciandone altri, avrebbe giovato alla compattezza dell’opera. Personalmente auspicherei una virata verso sonorità puramente ambient, che a mio giudizio potrebbe consentire alla navicella del progetto Staurophagia di fluttuare con maggiore personalità e decisione nell’immensità del cosmo. In ogni caso siamo di fronte ad un lavoro interessante che, a differenza di molti altri, mette in mostra la volontà di non accontentarsi. Il che, già di per sé, non è poco.