Ossario – Ossario

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Adorate il vecchio black metal della prima ondata e ancora adesso, ogni volta che ascoltate una canzone dei Celtic Frost o dei primi Mayhem, non potete trattenere una spontanea erezione? Andate pazzi per il thrash/black più ruvido e bastardo e un sorrisone a trentasei denti vi si stampa in faccia quando mettete nel lettore un cd degli Aura Noir, dei Desaster o dei Bonehunter? Se le cose stanno così allora in questo omonimo ep di debutto dei nostrani Ossario troverete sicuramente pane per i vostri denti marci e sangue in abbondanza per placare la vostra sete di distruzione. La band arriva dalla Sicilia, isola baciata dal sole e dalla dolce brezza del mediterraneo, nella quale tuttavia si agitano, in recondite e umide catacombe pregne di muffa, molte realtà oscure e malevole, impegnate a sventolare il vessillo del più mortifero nichilismo. È appunto il caso dei nostri amici, appena usciti dalla terra cimiteriale di qualche fresca sepoltura: l band è nata da poco ed è composta da Schizoid alle chitarre, Krost Von Barbarie alla voce e Anamnesi alla batteria, già membri di realtà locali come Malauriu e Dawn Of A Dark Age. Quello che gli Ossario ci propongono in questo breve ep, secondo quanto dichiara la stessa band, sono “quattro tracce di black metal perverso, frutto dell’ossessione per la morte e la decadenza, dell’alienante condizione della quarantena appena trascorsa”, ed in effetti è così: black metal sporcato di thrash, sia nel riffing che soprattutto nelle ritmiche, rudimentale e selvaggio, senza compromessi, caratterizzato da un suono low-fi e necro fino a midollo.

Roba vecchia ma le chitarre graffiano al punto giusto, la sezione ritmica è incazzata e pesante quando serve e lo screaming è l’urlo dilaniante e feroce di una bestia ferita e in agonia. Quattro pezzi primitivi, violenti e lugubri, a cavallo tra anni ottanta e anni novanta, che rappresentano, da un lato, un tributo a quel genere di sonorità e, dall’altro, uno sfogo rabbioso e liberatorio, come quando si decide di tirare un pugno contro il muro per farsi volontariamente del male. Spicca tra tutti “Torment Sweet Torment”, che si aggiudica a mio giudizio la palma di miglior brano del lotto. Che dire in conclusione? Dal nome del gruppo all’artwork, dalla musica proposta all’approccio generale, non c’è assolutamente nulla in questo dischetto d’esordio che non sia stato già visto e sentito in abbondanza nel corso delle ultime quattro decadi ma va bene così: zero velleità d’innovazione e tanto sudore nel nome dell’anticristo, perché è comunque meglio una veloce scopata che un anno di lento e inconcludente onanismo. Ai posteri l’ardua sentenza: io un po’ di voglia di sentirli sulla lunga distanza comunque ce l’ho, pur già sapendo fin da adesso che cosa aspettarmi.