Ormai ho una certa età (ahimè) e un disco come questo debutto del progetto Akolyth, one man band della quale non si ha alcuna notizia se non che si tratta appunto di un solo project dietro al quala si cela il mastermind Sphere, normalmente non avrebbe attirato la mia attenzione, dal momento che le mie pretese sono piuttosto elevate e non tendo più ad accontentarmi di dischi black standard (e tutto, dalla copertina alla presentazione del promo, lasciava pensare che questo lo fosse). Ho comunque deciso di dargli una possibilità (lo so, ho anch’io le mie debolezze) e devo dire che, inaspettatamente, sono stato catturato dall’atmosfera oscurissima e malata che trasuda letteralmente da ogni singola nota distorta e riverberata di questo omonimo debutto sulla lunga distanza, che esce per i tipi della tedesca Amor Fati Productions. Confermo che Akolyth suona un black metal classico e tradizionale sotto ogni punto di vista, orgogliosamente e ottusamente ancorato all’eredità dei primi anni novanta e caratterizzato da un sound feroce, cupo e ritualistico. Niente di più e niente di meno. Un disco onesto, formato da quattro pezzi che sfiorano ciascuno i dieci minuti di durata (su tutti svetta “The Night, The Fog”, che si concede anche qualche brumoso rallentamento e indulge in sciamaniche ripetizioni), nel quale un riffing secco ed elementare si unisce al più demoniaco e bestiale degli scream e ad una registrazione grezza e artigianale: questi sono gli ingredienti semplici e risaputi che il nostro amico utilizza per condire il suo piatto, che è un po’ come la pizza margherita: tutti la conosciamo e l’abbiamo mangiata centinaia di volte ma comunque continua a piacerci, a patto di avere fame.
Questo è un disco di raw black metal al 100%, senza particolari variazioni sul tema e senza possibilità di errore, eppure c’è qualcosa che vi conquisterà, nonostante tutto. Sarà l’aggressività e la freddezza delle furiose trame chitarristiche, sarà il martellare incessante e devastante della batteria con il classico suono vintage tipo pentola arrugginita, sarà il cantato contorto e mefistofelico, sarà l’atmosfera da cerimoniale proibito tesa ad evocare demoni da un qualche imprecisato aldilà, sarà questa devozione quasi maniacale verso la vecchia scuola, sarà la specifica predisposizione iconoclasta volta a distruggere e dissacrare ogni cosa: fatto sta che alla fine dell’ascolto resterete soddisfatti e, se non avrete placato la vostra sete di novità, avrete almeno in parte placato la vostra insaziabile brama di fetida oscurità. In fin dei conti “Akolyth” è una piacevole carneficina, un bagno nella lava inacedescente, senza fronzoli e senza troppe pretese: un album “brutto”, tanto da poter essere considerato bello. E tanto basti.