Il classico esempio di abito che fa il monaco? Il nuovo disco dei Förgjord “Laulu Kuolemasta”. Il combo finalndese, in giro da più di vent’anni, è giunto al sesto full length, oltre a svariate altre uscite in vari formati, e questa volta cerca di “sorprendere” i propri fans con un approccio particolarmente vintage (e, col senno di poi e con qualche accorgimento in più, si sarebbe potuto parlare di un piccolo gioiello di metallo estremo). Purtroppo i “se” sono tanti e d’obbligo in questo caso, in quanto, se da una parte il nostro amato black metal, quello più becero, primordiale e feroce, deve avere come condizione necessaria una produzione che non teme suoni sporchi, ruvidi e low-fi, dall’altra c’è da considerare che gli anni novanta sono (purtroppo) finiti da un pezzo, e il voler tentare in tutti i modi di ricreare più o meno artificialmente atmosfere lugubri e malsane, come quelle che venivano partorite in maniera del tutto naturale dai vari Burzum, Mayhem e compagnia incendiaria, potrebbe non rivelarsi una scelta saggia, visto e considerato che da allora sono ormai passati quasi trent’anni. L’effetto mistero nel black metal è svanito da un pezzo e, nel frattempo, da genere di culto si è trasformato a genere di nicchia così che, anche in questo segmento del metal, gli accorgimenti di produzione e di mix finale hanno iniziato ad acquisire un’importanza non trascurabile. I nostri eroi però se ne sono scordati e hanno deciso di far uscire questo nuovissimo “Laulu Kuolemasta” con una delle produzioni più schifose e maledette che si potessero immaginare.
Scelta coerente con il resto della loro discografia, bisogna darne atto a questi ragazzi, ma di sicuro non appagante per chi deve ascoltare e godere un disco che viene quasi violentato dai suoni in questione. Il platter, che si articola labirinticamente in dieci tracce per una durata di quarantacinque minuti, sin dalle sue prime battute fa capire che, questa volta più che mai, la band ha voluto rifarsi alla vecchia scuola, senza tralasciare la tradizione melodica finlandese e senza lesinare una certa carica sperimentale, che del resto il gruppo ha mostrato in ogni suo lavoro nel corso della propria lunga carriera.
Raw black metal d’altri tempi, che esplode esotericamente nelle casse dei nostri impianti ma che, per poter essere compreso, necessita del massimo volume: la produzione dannatamente low-fi; la batteria sottotraccia, che ricorda vagamente il suono delle stoviglie della nonna; le chitarre fredde, zanzarose e con troppo riverbero; la voce stridula, come quella di un goblin con la raucedine, che viene letteralmente sommersa dagli strumenti, diventando spesso inascoltabile e incomprensibile, sono il risultato, a nostro parere, di una mossa che danneggia la riuscita del disco. La cosa che più fa incazzare è che “Laulu Kuolemasta” è composto quasi esclusivamente da buoni pezzi, che trasudano misantropia e vampirismo. Una messa di quasi un’ora, che inizia con l’intro spoken di “Laulu Murtuvan Niskan”, per poi dare sfogo al leitmotiv di tutto il lavoro: sezioni veloci in tipico stile black, che si alternano costantemente a rallentamenti più ragionati e passaggi classici, con un riffing coinvolgente al limite del punk n’roll, per un sicuro headbanging.
Interludi acustici e atmosferici sono disseminati lungo il disco, per dare tregua all’ascoltatore dai suoni ultraterreni prodotti dalla registrazione a quattro tracce, a sottolineare il bipolarismo di primo livello di questi ragazzi, che alternano un riffing a tratti plumbeo, lento e pesante (come nella bellissima “Ruotta”), a bordate assassine (l’epica cavalcata verso gli inferi della conclusiva “Veljessurma). Non un brano brutto, nessun filler ma solo killer tracks, tra le quali spiccano, oltre all’opener e alle due songs sopracitate, anche la folle “Surman Virta” e la seguente “Kostonhetki”, autentiche divagazioni black, tra intro oscure e rarefatte e svariate influenze, pur coerenti ad un concetto di black metal nord europeo, ma con la voglia di non prendersi troppo sul serio grazie al riffing spesso e volentieri al limite del black n’roll.
Un disco composto da ottime canzoni, che avrebbe potuto addirittura far capolino tra le uscite dell’anno, se non fosse stuprato da una produzione che vorrebbe rievocare gli oscuri fasti misantropici del passato ma che, non solo affossa la resa di ogni singolo pezzo, danneggiando soprattutto le vocals, spesso impercettibili nel marasma sonoro, ma rende pure difficile in generale l’ascolto, aumentando la voglia di skippare i pezzi. Di sicuro i Forgjord sanno come fare un buon disco e lo hanno dimostrato nel corso degli anni, ma ci troviamo nella posizione di dire che, se si mettesse da parte quell’ossessione per i suoni tombali e si optasse per produzioni più pulite ma pur sempre analogiche, il risultato ne gioverebbe. PS: il voto sarebbe stato di almeno dieci punti superiore.