Abbiamo dovuto attendere ben quattordici lunghi anni affinché gli ateniesi Order Of The Ebon Hand dessero finalmente un successore all’ottimo “XV: The Devil” ed ora che abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare questo nuovo “VII: The Chariot”, terza fatica sulla lunga distanza per la band capitanata dal bassista e singer Merkaal, ispirata ancora una volta ad una carta dei tarocchi, possiamo tranquillamente affermare di trovarci di fronte all’ennesimo lavoro degno di nota partorito dalla sempre fertile e valida scena black ellenica. Introdotto da una bella copertina, che raffigura un cavaliere su un carro trainato da un cavallo bianco e da uno nero (la luce e l’oscurità) questo disco ci restituisce infatti integri tutti gli elementi tipici e ben noti del “true” black metal, riletti però attraverso una sensibilità personale, che si estrinseca in un equilibrio pressoché perfetto tra il classico sound nordeuropeo e quello greco; tra la gelida ferocia del riffing e un alone occulto e misterioso che avvolge ogni nota; tra passaggi caratterizzati da muscolare e sanguinosa oscurità e momenti decisamente più atmosferici, dove le melodie emergono con tutto il loro conturbante e sinistro fascino. Senza stravolgere le regole non scritte del genere, applicando in modo rigoroso un tremolo essenziale ed ipnotico, inserendo armonie dannatamente ossessive e qualche squarcio al tempo stesso epico ed inquietante, la band greca trova la propria via lungo il percorso oscuro del black metal, confermando quanto di buono fatto in passato, in quest’occasione ulteriormente esaltato da una produzione al passo con i tempi, che tuttavia non elimina quel piglio fondamentalmente retrò che comunque continua a caratterizzare la loro proposta musicale. E quanto abbiamo appena detto è riscontrabile immediatamente dall’attacco dell’opener “Dreadnaught”, pezzo che evolve da un inizio cadenzato e misterioso ad una successiva esplosione di rabbia, incorniciato da tastiere dal sapore esoterico, che senza indugio ci immergono in quella che sarà l’atmosfera generale del disco.
E se brani come “Sabnock” (per la quale presta la propria voce anche Sakis Tollis dei Rotting Christ, sacra istituzione del black metal ellenico) o “Knight Of Swords” possono definirsi più canonici (gli Order Of The Ebon Hand sanno anche come pestare duro, quando è il momento) ma certamente non banali e non privi di elementi di interesse, è nella parte finale dell’album che la band piazza i suoi colpi migliori. “Αίαντας” è infatti una canzone semplicemente perfetta, con le sue evocazioni demoniache intervallate da una linea melodica che si stampa subito nella testa dell’ascoltatore, quasi a metà strada tra Arcturus e Varathron. E, dopo la feroce e ficcante “Bael”, è la volta di “The Slow Death Walk”, suite conclusiva, insinuante e rituale, a tratti perfino dolente e malinconica, che esalta tutte le qualità dei nostri, con quel giro di tastiere, tanto semplice quanto efficace, che ci rimanda a culti osceni ed innominabili.
Gli Order Of The Ebon Hand (che, è bene ricordarlo, non sono gli ultimi arrivati: la band infatti è in giro dal lontano 1994) hanno dato vita ad un album perfettamente coerente ma per nulla nostalgico: centellinando le loro uscite e cercando di privilegiare la qualità rispetto alla quantità, dimostrano che è ancora possibile suonare black metal in modo personale, riproponendone in maniera assolutamente convincente strutture, contenuti e luoghi comuni, senza tradire i presupposti di partenza. Un ottimo disco!