Escludendo la sacra triade (Rotting Christ, Varathron e Necromantia) e mettendo da parte mostri intoccabili come Septic Flesh e Kawir, i Caedes Cruenta sono una di quelle band greche che nel corso degli ultimi vent’anni sono rimaste fedeli a sé stesse e ancorate a quel sound anni novanta tipicamente ellenico, senza mai snaturarne l’attitudine. Il combo condivide alcuni membri con i già citati Kawir e con i Walpurgia e “Ερείπια Ψυχών” non è nient altro che il secondo seminale disco della band, edito nel 2014 e ristampato per l’occasione grazie ad una collaborazione tra Regain Records e Helter Skelter Productions. Tra le cose che balzano subito agli occhi c’è la caratteristica copertina in bianco e nero, disegnata a mano, che rappresenta una sobria processione satanica, con tanto di druidi incappucciati e Belzebù a dirigere le masse; il tutto in un contesto elegante, tra scheletri, croci e stelle rovesciate degne di una classica prima comunione infernale. Per quanto riguarda il contenuto di questo platter, non possiamo esimerci dall’esaltarne le qualità, che poggiano soprattutto sulla coerente fedeltà nei confronti del black ellenico più oscuro, caratterizzato da quell’incessante riffing ossessivo ma sempre melodico, epico e dal sapore mediterraneo.
Cinquanta minuti circa di metallo blasfemo, che narra di morte, odio, occultismo e antichi rituali, divisi in sette lunghe tracce, più una breve intro atmosferica, nelle quali i nostri beniamini riescono a dare il meglio di sé, pur non inventando nulla e rifacendosi alle antiche ricette dei padri del genere, dimostrando di aver imparato la lezione alla perfezione. L’intro assolve perfettamente la sua funzione, quella di accompagnare l’ascoltatore all’interno di questo bizzarro teatrino blasfemo, grazie ai suoni sinistri che anticipano l’opener “The Mystical Ritual Of The Dark Priests”, uno dei migliori pezzi del lotto, che si destreggia tra thrash metal, speed e un sapiente uso delle tastiere, che nei rallentamenti riescono a enfatizzare i frangenti melodici che caratterizzano il sound della band. Per quanto riguarda le tastiere, bisogna dire che la produzione del disco, volutamente vintage, sporca e graffiante, spesso non rende loro giustizia, relegandole a mero abbellimento, utile a sottolineare i passaggi più oscuri da una parte, più melodici dall’altra, e rendendole una sorta di elemento gregario, ma di lusso. Gli anni novanta in “Ερείπια Ψυχών” ardono più che mai e la band è davvero impegnata a sostenere il suo nobile obiettivo, grazie alla classica fisicità greca, pulsante come un presagio di inquietudine: il suono virile del disco, con le sue atmosfere epiche e immortali, riesce a trasportarci indietro nel tempo, nell’epoca della gloria ellenica.
Dopo attenti ascolti ci rendiamo conto tuttavia che l’impalcatura dei pezzi è praticamente la stessa in tutte le tracce ad eccezione di “Εκεί όπου τραγουδά η νεκροκεφαλή”, unica song in lingua madre che, a differenza delle altre, risulta più marziale e rarefatta. Il resto dei brani partono tutti con un up tempo di marchio old school, per poi dare spazio a vari rallentamenti ed accelerazioni, rimanendo comunque tra loro abbastanza simili sia nella struttura che nelle linee melodiche. I riff monolitici presenti in ogni singola traccia sono al contempo cupi e atmosferici, decisamente minimali, ma non per questo privi di classe: si evince un grande lavoro di squadra e nessun brano in effetti può essere definito migliore o peggiore degli altri; il disco è molto omogeneo, senza significativi momenti di stanca. D’altro canto, come detto, i pezzi sono abbastanza simili l’uno all’altro, cosa che può generare negli ascoltatori più sofisticati una sorta di appagamento già dopo i primi brani e invogliare lo skip da una song a un’altra, considerando anche che ogni tanto le classiche grida black del singer Echetleos, quando si fanno più acide e acute a dispetto delle parti più tendenti al growl, risultano un po’ fastidiose, rischiando di pesare nell’economia di un ascolto organico e complessivo. “Ερείπια Ψυχών” è in definitiva un buon disco, che nel suo essere ortodosso e oltranzista dimostra che, se nel nuovo millennio si vuole suonare in maniera nostalgica del sanissimo black metal ellenico old school senza risultare anacronistici, si può (e si deve).