Il Portogallo ci travolge, ancora una volta, con un fiume di nerissimo black metal, di quello incontaminato e fieramente legato ai dettami stilistici ed estetici della “second wave”. Tra le realtà più rappresentative di questo filone vi è sicuramente Mons Veneris, one man band decisamente prolifica (il nostro, che ci tiene a mantenere celata la propria identità, ha all’attivo soltanto quattro album nell’arco di diciassette anni di carriera ma compensa ampiamente con la consueta, sterminata trafila di demo ed uscite minori nei più svariati formati) che, insieme a Irae, Vetala, Decrepitude e Rainha Cólera, appartiene al così detto Black Circle (o apparteneva, perché non è chiaro se questo sodalizio tra gruppi portoghesi, che richiama ovviamente le Black Legions francesi della seconda metà degli anni novanta, esista ancora). È quindi evidente che abbiamo a che fare con un’entità puramente underground, che nel corso della sua discografia ha comunque trovato modo di spaziare dal black minimale e ritualistico, al black/thrash più isterico e caotico, al dungeon synth più etereo ed angosciante, pur mantenendo invariati la propria attitudine e il proprio approccio rigorosamente “do it yourself”. Quest’ennesima uscita, sotto forma di ep 10” autointitolato, riconduce la musica di Mons Veneris sui binari del black metal più tradizionale e grezzo, per l’occasione declinato nella sua forma più atmosferica, umida e pregna di muffa, con accenni depressivi ed orrorifici in primo piano.
Il lato A è occupato da “Ritual Of Neverending Doom”, pezzo di oltre dieci minuti di durata, che procede in modo lento ed inquietante, costruito su una linea di chitarra davvero ossessiva ed ipnotica, accompagnata da una batteria dal sapore vagamente tribale e da urla torturate ed animalesche: il tutto rende effettivamente giustizia al titolo, in quanto il feeling generale sembra essere proprio quello di un rituale innominabile che riesce a catturare l’ascoltatore tra le oscure ombre evocate.
“A Scythe Infested With Plagues…”, posta sul lato B e altrettanto lunga, esplode fragorosamente nei suoi minuti iniziali, per poi trasformarsi ben presto in una nenia funebre sporca ed intrisa di miseria e malinconia, tra melodie trascinate ed impastate, che potrebbero richiamare alla mente Xasthur o i Judas Iscariot più drammatici (per rendere l’idea) e le tastiere che, in sottofondo, svolgono discretamente il loro sporco lavoro per rendere l’atmosfera generale ancora più plumbea e mortifera.
È quasi superfluo specificare che la produzione è assolutamente ruvida e low-fi, come si conviene ad un disco di questo genere, ma fortunatamente questo non inficia il risultato finale, che resta comprensibile e si salva dall’effetto cacofonia indefinita: entrambe le canzoni qui presenti sono semplici e lineari, costruite su pochi elementi, ma conservano la loro specifica musicalità, che le rende distinguibili e personali. In conclusione, possiamo dire che con questo lavoro Mons Veneris conferma il proprio status di realtà underground di un certo spessore nell’ambito della scena lusitana (dove la concorrenza è piuttosto agguerrita) e ricorda a tutti, se mai ce ne fosse bisogno, che per suonare “black fucking metal” non è assolutamente necessario andare a cento all’ora né cambiare riff ogni due secondi alla ricerca di qualche cervellotica originalità.