La nostra vecchia Italia è da sempre patria di una buona sottocultura black, e ci sono state negli anni realtà che hanno saputo sfidare quasi ad armi pari i cugini nordici. La recensione che portiamo oggi è di una nuova e promettente realtà nostrana, i Vulfehrie, composti da Antonio Zalitta a chitarre e synth e M. alla voce. Questa band si ispira chiaramente ad un classico black atmosferico, con tematiche principalmente naturalistiche, che toccano però anche la morte e il folklore. Il duo riesce però a reinterpretare una materia basilare sicuramente già sentita con una buona personalità, e con un ottimo bilanciamento tra parti più prettamente atmosferiche ed altre nettamente black. La batteria disegna ritmi talvolta classici della tradizione black, in altre parti invece accompagna le chitarre ed i sintetizzatori con soluzioni anche molto particolari. Le parti di chitarra sono forse la cosa migliore di tutta la produzione, grazie ad una spettacolare varietà nel riffing durante i passaggi veloci, spaziando dal black fino ad alcuni frammenti epici e creando delicate armonie sospese con arpeggi e sovrapposizioni. La voce, estremamente buia e cavernosa, si adegua molto bene ai vari contesti dell’album, sfoderando una grande ferocia e disperazione durante le sferzate black, e diventando quasi rassegnata e declamatoria durante i pezzi atmosferici.
L’album è permeato da un’eco costante, che impasta il suono e rende i fraseggi delle chitarre e la voce infernali e delicate allo stesso tempo, quasi una colonna sonora del Limbo dantesco. Nota di merito per gli intermezzi strumentali per sintetizzatore solo, che esprimono la parte più folk della produzione. L’album si conclude poi con un pezzo simil-dark ambient che ribalta un po’ tutto quello che abbiamo sentito precedentemente: abbiamo infatti l’occasione di ascoltare un insieme di effetti sonori e un costante rullo di tamburo di sottofondo, che creano un forte effetto “wall of sound”, salvo poi concludersi con la ripetizione del riff iniziale. Insomma un album sicuramente debitore del classico black atmosferico anni duemila, ma che riesce a regalare una mezz’ora di ascolto piacevole e anche qualche spunto davvero ben riuscito. Se avete, come me, un vero feticismo per arpeggi, urla e paesaggi desolanti, questo album fa sicuramente per voi.