“Maha Kali” è la seconda fatica sulla lunga distanza della creatura N’Zwaa, one man band a stelle e strisce dietro la quale si cela il factotum e polistrumentista Maresh Das (musicista americano noto come Nick Filth: il nome utilizzato in questo disco gli è stato attribuito dal suo maestro spirituale in India). E, com’è facile intuire dal titolo dell’album e delle canzoni, proprio il misterioso culto della dea Kali, rappresentazione feroce e non benevola della divinità femminile, è al centro del concept di quest’album, pubblicato nel 2019 ma che solo oggi riesce a godere di una distribuzione degna di questo nome e che segue a due anni di distanza il precedente esordio “Let The Earth Rotate / Let The Cosmic Fabric Flow”, opera black/industrial caratterizzata dall’ampio ricorso a rumorismi ossessivi. Questo successore, composto nell’arco di tre anni, si distacca decisamente da quel tipo di sonorità e si muove invece nei territori, altrettanto impervi poco rassicuranti, di un black/death metal oscuro e claustrofobico, dal retrogusto psichedelico e dal sapore rituale, con una spolveratina di doom catacombale qua e là, vocals tendenti al growling ed un piglio tribale e sciamanico che rappresenta forse l’elemento più interessante dell’album, che per il resto si regge sulle consuete trame chitarristiche ossessive e dissonanti, tanto in voga nel black degli ultimi tempi, qui però reinterpretate con particolare gusto, pur in un contesto che resta comunque di furiosissima violenza. Ad eccezione dell’opener “Kali Ma Jayanti”, che ha liriche in inglese e segue la breve intro ambientale “Om”, tutti i restanti pezzi sono composti interamente dal canto del mantra in hindi dedicato all’adorazione di Hindu Devi Kali Maa.
L’intermezzo “Aarti”, che divide esattamente a metà l’album, è stato registrato in presa diretta sulle rive del fiume Gange a Varanasi, in India, da Maresh Das, quando è stato darshan di Baba Keshar Nath Ji, e lo stesso è anche autore delle fotografie all’interno del booklet, che ritraggono l’ingresso della grotta in cui Baba Keshar Nath si rifugiò negli ultimi vent’anni, in preparazione del suo mahasamādhi (ovvero il consapevole abbandono spirituale del proprio corpo). Tutto ciò per sottolineare come in questo lavoro testi, musica ed aspetto grafico rappresentino un tutt’uno inscindibile e siano al tempo stesso connessi con il percorso di intima riflessione e meditazione intrapreso dal mastermind, con riferimenti tanto a testi sacri della religione Hindu quanto ad opere di narrativa horror che trattano argomenti affini (il nome del progetto infatti è preso dal romanzo “The Djinn” di Graham Masterton). Al di là dell’aspetto lirico e concettuale, abbastanza distante da quelli normalmente più gettonati ma altrettanto misterioso ed affascinante, la musica contenuta in questo dischetto è sicuramente apprezzabile: una rilettura tutto sommato convincente degli stilemi tipici di quel filone che ormai da alcunianni viene definito “religious” (in effetti un calderone abbastanza ampio, dove vengono fatte confluire realtà anche piuttosto diverse tra loro), grazie anche alla giusta dose di varietà e dinamismo compositivo. Resterà assai probabilmente un prodotto ultra underground ma qualche ascolto a mio giudizio lo merita.