Dopo qualche anno di silenzio (l’ultimo album effettivo è “1050 Years Of Pagan Cult” e risale al 2016), tornano in pista (o sarebbe meglio dire sul campo di battaglia) Rob Darken e i suoi Graveland, che certamente non necessitano di particolari presentazioni. Come saprete, la fase propriamente black metal dei Graveland (quel black metal nebbioso, criptico e riverberato, con il quale il nostro amico ha scritto pagine importanti della musica estrema polacca nella prima metà degli anni novanta, dettando in buona parte le coordinate stilistiche di quella scena) è ormai trascorsa da tempo. A partire dalla fine dello scorso millennio infatti i Graveland si sono accostati a sonorità di stampo pagan/viking, pur conservando comunque qualche elemento black nel loro sound: influenze di questo tipo si potevano già sentire chiaramente in un disco come “Following The Voice Of Blood” e, strada facendo, sono diventate sempre più preponderanti, avvicinando via via Darken e il suo progetto al percorso a suo tempo compiuto da Quorthon. Questo cambio stilistico, che pare ormai irreversibile, ha portato i Graveland a partorire buoni (o quanto meno discreti) dischi, come “Dawn Of Iron Blades”, “Fire Chariot Of Destruction” o ancora “Will Stronger Than Death”, ma anche a vivere (almeno a mio giudizio) una certa stasi creativa, che si sta prolungando sempre più e si manifesta con soluzioni sempre uguali a sé stesse e non sempre sostenute dalla necessaria dose di ispirazione. Insomma, per dirla in parole povere: sono circa vent’anni che Darken fa sempre lo stesso disco e, anche all’interno del singolo album, non è che ci sia tutta questa varietà.
Come avrete capito, con questo nuovo “Hour Of Ragnarok”, ultimo lavoro di una discografia ormai nutritissima, le cose non cambiano di una virgola e d’altra parte sarebbe sufficiente dare anche solo una rapida occhiata alla cover e ai titoli dei pezzi per intuirlo. L’album, diviso in due parti (rispettivamente “ragnarok” e “twilight”) e fuori per la Inferna Profundus Records, è niente più che il classico disco dei Graveland ultima maniera: un concentrato di pagan black metal a sfondo mitologico, che conserva intatto il feeling al tempo stesso dolente, malinconico ed epico del genere, senza tuttavia svettare per particolare qualità o freschezza compositiva, se non in alcuni momenti effettivamente ben riusciti, e mi riferisco soprattutto alla più folkeggiante “Children Of Hyperborea” e alla conclusiva “River Of Tears”, che si dimostra abbastanza dinamica e coinvolgente nel suo incedere cadenzato da tipica cavalcata viking.
Peraltro il buon Rob non rinuncia né allo screaming, decisamente monocorde (bisogna dirlo, anche se qua e là vi è qualche sparuto sprazzo in clean vocals), né ad una produzione abbastanza grezza e non molto potente, il che finisce per penalizzare sia gli intrecci chitarristici sia gli incisi di tastiera che comunque sono ben ponderati e creano la giusta atmosfera tragica e battagliera. Tuttavia manca il guizzo, il colpo di classe che sarebbe lecito aspettarsi da un musicista così navigato e che ha dato così tanto in passato al nostro genere preferito: a parte le due canzoni sopra citate infatti gli altri episodi galleggiano tutti sostanzialmente in un’aurea mediocritas che li rende sì piacevoli all’ascolto ma non particolarmente entusiasmanti, in equilibrio tra i Bathory post “Hammerheart” e gli ultimi Nokturnal Mortum (che peraltro, manipolando la stessa materia, hanno saputo esprimersi a livelli superiori). Ovviamente chi ama questo genere di sonorità non avrà di che lamentarsi ma sono convinto che in giro ci sia di molto meglio. Un passo falso oppure questa è definitivamente la dimensione dei Graveland?