Se traduciamo in italiano il termine Sznur vedremo che vuol dire semplicemente corda, ma questi tre simpatici polacchi non parlano né di escursioni in campagna in stile boy scout né di nodi navali, pertanto escludiamo che la corda in questione possa essere utilizzata per questo tipo attività più o meno ludiche. Basta tuttavia guardare il logo della band per renderci conto, ancor prima di ascoltare la loro musica, di cosa questi disperati desiderino offrirci. La corda di cui parlavamo è quella di un bel cappio da attaccare al soffitto, e fa bella figura in ogni copertina degli album della band, che trattano ovviamente simpatiche tematiche come il suicidio, la morte e l’ancora più classica misantropia a noi tanto cara. Hanno le idee tanto chiare quanto derivative gli Sznur, che professano la loro fede antivita con un canonico ma al contempo efficace black metal di tipico stampo polacco, in lingua madre, carico di rabbia ed energia negativa, con tanto groove, dove a fare il bello e il cattivo tempo sono le chitarre, che riescono a emergere grazie all’elevato grado di headbanging di ogni singolo riff, e le disperate vocals del singer Zer0.
A differenza della stragrande maggioranza delle band che trattano tematiche simili gli Sznur, sul patibolo dal 2017, non si lasciano trascinare in strutture plumbee e rarefatte ma non la smettono un attimo di schiacciare il piede sull’acceleratore, risultando a tutti gli effetti una canonica band black metal che in effetti nulla aggiunge al mercato ipersaturo del genere; ma il tutto è così dannatamente piacevole che non si riesce a fare a meno di un solo minuto di “Dom Człowieka”, terza fatica sul lungo periodo e puntuale conferma degli intenti della band, poco inclini ai compromessi. Mezz’ora di metallo estremo e senza fronzoli, dove si evincono le ottime capacità della band, tralasciando testi e titoli che farebbero più bella figura in un disco porno grind che, per questioni di buon gusto e ordine pubblico, evitiamo di riportare e tradurre ma che risulteranno esilaranti per chi conosce il polacco o si armerà di traduttore. Commentando la performance del gruppo, la prima idea che traspare è la dannata coesione tra i tre componenti, che fanno della semplicità il loro cavallo di battaglia, senza mai tralasciare la dedizione a particolari e sfumature, con un lavoro di pregio sia delle chitarre che della batteria, spesso e volentieri davvero indemoniate.
La produzione riesce a mettere in risalto la prestazione dei nostri in maniera compatta, soprattutto quando si tratta di classici tremolo e blast, non creando mai quel senso di confusione tipico dell’underground, a sottolineare la professionalità di un’etichetta (la Godz Ov War Productions) sempre attenta a migliorare i suoi prodotti. Cinque brani che si articolano in maniera superba tra tipiche sfuriate black e rallentamenti marziali al limite del doom, dove ciò che non manca è una sorta di malinconia oscura e blasfema, quasi goliardica se si pensa ai temi trattati, con synth e campionamenti che riescono a creare un clima ulteriormente bizzarro e irreale. Grazie alla durata media elevata delle composizioni la band riesce a esprimere tutta la sua negatività nei confronti della vita, dando ampio spazio alle strutture strumentali, che sono tutt’altro che banali ma che potrebbero risultare indigeste a chi non è dentro il black metal più estremo e underground. Un lavoro di pregio, se si considera la nicchia che rappresenta, che potrebbe anche riuscire a strappare consensi pure a chi si volesse avvicinare a questa frangia più deleteria del black metal, a patto di non aver avuto negli ultimi periodi idee autolesioniste.