C’è black metal e black metal; gli Imperialist sono di questa seconda schiera. Cosa cambia? Tutto… niente… chi può dirlo! Giusto tre anni fa i californiani irrompevano sul mercato con il loro primo full length “Cipher”, lasciando presagire un futuro roseo, grazie al loro metal estremo fatto di black caratterizzato da tematiche fantascientifiche e di stampo prettamente americano ma contaminato da un’aura tipicamente svedese, con svariate influenze che la band, grazie al suo background esperienziale, riusciva ad amalgamare con intelligenza, senza creare una poltiglia deforme. Cosa può cambiare in tre anni? Nel caso degli Imperialist non possiamo esimerci dal dire che “Zenith” rappresenta nient’altro che il naturale prosieguo di “Cipher”, sia per quanto riguarda il genere proposto che per le tematiche sci-fi già affrontate nel primo platter. Un secondo capitolo dove i quattro di Monrovia non si risparmiano ed anzi rincarano la dose, per quel che si può, rispetto al predecessore: come dicevamo, nessuno stravolgimento ma un’ulteriore presa di coscienza dei propri mezzi tecnici che sfocia in una, seppur non drastica, differente struttura dei brani, che questa volta risultano più articolati, lunghi e meno diretti, dando modo alla band di inserire molteplici cambi tempo, tali da farci immergere in atmosfere surreali ai limiti dell’universo conosciuto. Si diceva di un tocco svedese, freddo e malinconico che esplode, più che altrove, in “He Who Mastered Shapes”, dove sembra che i Dissection abbiano vestito tute spaziali, ma è proprio qui che, tra riff e linee vocali, lo spirito immortale di Jon fa capolino più che mai, sottolineando la riverenza degli americani verso la fiamma nera europea.
Ma se il debito verso i maestri viene così pagato, in un brano come “Majesty Of The Void” è invece palpabile la provenienza stelle e strisce del combo: riff taglienti di matrice thrash/death sono accompagnati da un blast violento, con le acide vocals di Sergio Soto che la fanno da padrone, mentre la coda del pezzo lascia la band esprimersi con venature più progressive, che peraltro contaminano ogni singola canzone del disco. Le atmosfere spaziali sono crude e incutono timore con la loro freddezza, descrivendo l’infinito e angosciante fascino del cosmo, ipnotizzando l’ascoltatore tra tremolo e un blast che esalta il lavoro monstre del drummer Rod Quinones.
Dall’intro “01011000” la band carica l’ascoltatore sulla sua navicella e lentamente lo trasporta nello spazio, lontano dai confini terrestri: l’album pulsa come una stella luminosa nel firmamento e ogni singolo brano è meticolosamente strutturato, con una gran quantità di riff di buona fattura, fino alla conclusione, con “Beyond The Celestial Veil”, dove si viene trasportati nel regno inesplorato della mente umana. Grazie a “Zenith” gli Imperialist riescono nel difficile compito di superare il già ottimo debutto in una nicchia molto complessa, quella di un black metal estremamente tecnico, dove il thrash americano emerge con prepotenza e le influenze progressive stanno sempre dietro l’angolo e ci servono atmosfere che spaziano dall’etereo all’oscuro. La prova della band è di un livello superiore alla media, così come la produzione, che riesce a rendere giustizia a ogni singola nota, senza farci perdere neppure un accento sul charleston. Inutile cercare difetti in un disco simile, la cui unica “pecca” è quella di non voler risultare scontato o banale…