A solo un anno dal buon ep “Grubenfall 1727” e a due dall’imponente “Monvmentvm”, tornano i minatori più bestiali d’Europa, puntuali e precisi come sono loro sanno essere, con una nuova fatica incisa nella roccia. “Vom Schwarzen Schmied”, che rappresenta il quarto lavoro sulla lunga distanza in appena cinque anni, non si distacca per nulla dagli ultimi dischi, segnando così un perfetto continuum dove si evidenzia, tuttavia, il costante progredire tecnico del duo tedesco nel songwriting, che continua a maturare e a farsi sempre più elaborato, dando grande spazio a momenti atmosferici e cambi di tempo: in poche parole la struttura dei singoli pezzi è arricchita e resa ulteriormente complessa rispetto ai primi dischi, pur mantenendo intatta l’identità sonora, ben marcata in ogni brano targato Dauþuz. Se dovessimo definire il black metal di questi cavernicoli, sicuramente gli aggettivi adatti sarebbero “orgoglioso” e “purista” ma non per questo con i paraocchi: con questo vogliamo dire che, se da una parte la band ha forti e marcate radici old school, dall’altra non si pone limiti nell’utilizzare e ricercare soluzioni che si distaccano da un’ipotetica ortodossia, lasciando che l’ispirazione del momento si senta libera di esplodere. Ed è con quest’arte che la band narra le sue storie dal fascino antico, che si concentrano in gran parte sull’estrazione mineraria, sia nella loro terra natale che in tutta Europa.
Possiamo pure definire “Vom Schwarzen Schmied” il lavoro più ambizioso e maturo del gruppo: si percepisce la volontà del duo di centrare a tutti i costi l’obbiettivo, nel trasporre liriche oscure ed epiche in musica, trasferendo emozioni all’ascoltatore che viene sommerso e avvolto dai sentimenti disturbati che la band aveva al momento della concezione del disco. Come da tradizione, pure questa volta abbiamo a che fare con un concept album. La band divide il disco in capitoli numerati che prendono il nome di “Der Bergschmied” (ossia “Fabbro di Montagna”) e racconta la storia di questo personaggio, già apparso in un’altra canzone/storia dei Dauþuz.
Concettualmente i testi potrebbero essere definiti anche una riflessione su come l’umanità sia lentamente degenerata e su come la sua storia stia giungendo al termine: il fabbro guida il destino della meccanizzazione del genere umano, ma alla fine, resosi conto della sua insaziabile avidità, se ne allontana, abbandonandolo all’autodistruzione. Un concept ambizioso, che necessita di una colonna sonora imponente e fiera, come appunto questo disco, che raggiunge un’ora di durata e consente alla band di dare sfoggio di tutte le sue abilità tecniche e compositive, mettendo sul fuoco una gran quantità di riff e atmosfere epiche ma sempre oscure, di non facile assimilazione.
La lunga durata media dei brani, di oltre sette minuti, se da un lato offre la possibilità di spingersi oltre con orchestrazioni e soluzioni epiche, che in certi frangenti possono tendere sino al progressivo, dall’altro seleziona naturalmente i potenziali ascoltatori, escludendo a priori quelli che badano maggiormente all’impatto, in quanto qui è necessario approfondire ogni singolo minuto del platter per poter apprezzare a fondo e capire il disegno finale dei Dauþuz. Brani come “Mein Berg”, il singolo “Der Eid”, la diretta e violenta “Zauberwerk”, così come la suite finale “Sargdeckel”, rappresentano dei veri e propri manifesti di uno stile che, passo dopo passo, la band sta coniando e rendendo proprio, riuscendo nella difficile impresa di emergere dalla mischia. Ascolto dopo ascolto, con dedizione e concentrazione, “Vom Schwarzen Schmied” cresce, lasciando il segno, rendendo felici i fans che la band aveva saputo soddisfare con i passati lavori e offrendo agli ascoltatori più esigenti un lavoro che lascia appagati e stupiti. Conferma.