Esiste una nicchia nel black metal, tra le tante, dove i suoni si fanno più ovattati, le voci filtrate e soffocate tanto che sembrano provenire dall’oltretomba, le chitarre assumono vibrazioni da industria, con la complicità di un drumming quasi sempre esasperato, e il tutto crea nel complesso un caos sonoro per cui la stessa definizione classica di “black metal” finisce per non essere del tutto corretta. Con i Demonic Temple la formula è questa, e se ci aggiungiamo che provengono dalla Polonia e che i nomi dei componenti della band sono rappresentati dalle sole iniziali puntate, il gioco è fatto. Giunto alla terza fatica sulla lunga distanza, il duo procede inesorabile e insaziabile la sua folle discesa negli inferi, scrivendo un disco lontano anni luce da qualsiasi trend, anacronistico e malvagio come il nostro amico antenato con la clava: una mezz’ora abbondante di malessere, dove il caos è talmente accentuato che spesso si fatica a distinguere uno strumento o una linea melodica ma, al contempo, tutto quadra in un ordine ferreo e ineccepibile, riuscendo nell’intento di farci addentrare, con pazienza e attenzione, in ogni singolo minuto. Partiamo con il dire che un disco come “Through The Stars Into The Abyss” non è roba per tutti, non si parla di black metal di impostazione classica ma di vera e propria furia sonora che spesso sfugge al controllo, come d’altronde i Demonic Temple ci hanno abituato sin dall’esordio. Se dovessimo scegliere una singola parola per definire questo lavoro forse la scelta ricadrebbe su “ossessivo”: il riffing di M. e il drumming di N.D. sono un martello pneumatico che lavora incessantemente le nostre tempie, un mal di testa che non conosce aspirine.
E se, rispetto ai primi due dischi, la produzione finale del disco aiuta a comprendere maggiormente la struttura dei brani, non si può certo dire che i nostri boia polacchi si siano risparmiati in quanto a ferocia. Infatti hanno incrementato ancora di più il casino collettivo, puntando quasi ed esclusivamente sulla velocità. I rallentamenti sono sporadici e servono solo per dare un minimo di dinamismo ai pezzi e consentire di distinguerli uno dall’altro, impresa comunque ardua in questo contesto: la band riesce però nell’intento di epicizzare i brani che, con l’inserimento di qualche linea di synth, assumono connotati dal retrogusto atmosferico, seppur sempre malsano, oscuro e devoto al maligno. Questa volta il disco si compone di meno pezzi (quattro più un’intro), ma di lunga durata, stravolgendo la struttura dei due lavori precedenti, che vedevano canzoni dal timing più canonico. Grazie all’elevata durata dei brani (intorno agli otto minuti ciascuno), il gruppo si può sbizzarrire con un elevato quantitativo di cambi di tempo, riuscendo a creare una notevole varietà all’interno del platter e palesando un songwriting raffinato, avvolto da una produzione “live in studio” che raddoppia il senso di claustrofobia.
A distanza di tre anni dall’ultimo album la band torna quindi rinforzata e cosciente dei propri mezzi tecnici, nonostante rimanga assolutamente coerente a livello di brutalità e sound, risultando riconoscibile fin dalle prime note dell’opener e title track, con una grandiosa esplosione cerimoniale che ci trascina velocemente nel suo mondo sotterraneo per poi farci perdere nel cosmo al di sopra e al di là. In verità, questa dicotomia tra terreno e spettrale, tra densità e assenza di gravità, tra tangibile e immateriale, è lavorata magistralmente dal duo, che vi cotruisce attorno il concept che fa da sfondo a questo album feroce e abbagliante. Le catacombe sono apparentemente infinite; le stelle incombono minacciose sopra di noi. Abbiate il coraggio di attraversare le stelle nell’abisso!