Funeral Mist – Deiform

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Arioch (al secolo Daniel Hans Johan Rostén) può dirsi un personaggio di punta della scena black metal internazionale e sicuramente una persona che non ama stare con le mani in mano: cantante dei Marduk con lo pseudonimo di Mortuus; membro dei Triumphator, che spero possano in futuro ripartire (“Wings Of Antichrist” è decisamente un bel dischetto); mente del progetto elettronico/ambient DomJord, di cui ci siamo occupati in occasione della pubblicazione del debutto “Sporer”; e soprattutto mastermind dei Funeral Mist, che poi sono la sua prima band, diventata ben presto anch’essa un progetto solista. “Salvation”, l’esordio sulla lunga distanza, è da molti considerato, al pari dell’iconico “Si Monvmentvm Reqvires Circumspice” (la cui uscita ha preceduto di qualche mese), l’atto di nascita del così detto “religious”, i cui tratti peculiari sono rinvenibili soprattutto a livello lirico e iconografico e nel peculiare immaginario evocato, laddove invece la musica affonda chiaramente le radici nel black metal più tradizionale e soprattutto in quel particolare filone che vede nel seminale full length d’esordio dei Mayhem il suo indiscusso precursore. Nel corso degli anni il sottogenere si è diffuso ed è stato preda di varie imitazioni, da un lato partorendo i suoi capolavori e dall’altro dando la stura ad una miriade di inutili dischi fotocopia, come sempre capita. Nel frattempo la creatura di Arioch ha mutato pelle come un serpente maligno ed ha compiuto il suo percorso evolutivo, sempre al fianco della Norma Evangelium Diaboli, attraverso dischi intricati e dalle svariate sfumature come “Maranatha” e “Hekatomb”. Ed è ora la volta del quarto sigillo, che risponde al nome di “Deiform” e che cambia ancora una volta (seppur parzialmente) le carte in tavola, proponendo soluzioni diverse ma ben amalgamate tra loro, nell’ambito di un discorso stilistico che si mantiene su standard qualitativamente elevati, fluendo senza troppi strappi e mettendo in evidenza in quest’occasione una cura quasi maniacale per ogni aspetto, dagli arrangiamenti alla produzione. Tre sono gli elementi che mi hanno colpito all’ascolto dei disco. Innanzi tutto l’ugola di Mr. Rostén, che si dimostra (o si conferma, fate voi) uno dei cantanti più versatili ed espressivi di tutto il panorama black, capace di passare con estrema naturalezza dallo screaming più bestiale ad un cantato decisamente cupo e stentoreo, lambendo a tratti tonalità più salmodianti e ieratiche: e non è da tutti. In secondo luogo, la registrazione nervosa e potente ma assolutamente professionale, che ben evidenzia la stratificazione dei suoni, facendo emergere in maniera equilibrata il suono di ogni strumento ed esaltando la complessità delle strutture che reggono i pezzi: e, anche in questo caso, non è da tutti. E infine, la cosa più importante: le canzoni, che sono veramente ben scritte e lasciano spazio sia alla più folle ferocia (tuttavia sempre chirurgicamente controllata in una forma di violenza più spirituale che fisica) sia a campionamenti vari, che si innestano alla perfezione nel tessuto dei brani e nel contesto generale del disco.

E lo si nota fin dall’opener “Twilight Of The Flesh”, con il suo andamento insieme mortifero e liturgico, e quegli ipnotici canti gregoriani che certamente richiamano una “Carnal Malefactor” senza che per questo la canzone perda la propria specificità. Un’intuizione che si fa ancora più vincente in “Children Of The Urn”, picco compositivo del platter, con quel coro di voci bambinesche ossessivo ed inquietante come il refrain della colonna sonora di qualche vecchio film horror; così come nella title track, che invece si adagia su ritmi più sulfurei e cadenzati, senza rinunciare alla forma canzone ed a sinistre ricorrenze melodiche che si depositano nel cervello per non uscirne più. L’esperienza con i Marduk si fa invece sentire in maniera più evidente in canzoni come “Apokalyptikon”, con il suo riffing spezzettato e spigoloso, che unisce suggestioni vagamente tecno-thrash ad un piglio più moderno e progressivo, senza tuttavia perdere un’oncia della propria carica aggressiva; “In Here”, una vera badilata sui denti, un martellante vortice di metallo nero che non lascia scampo; e soprattutto nella veloce ed oscura “Hooks Of Hunger”, probabilmente il pezzo più “alla Marduk” di tutto il lavoro. Si tratta tuttavia di influenze non del tutto nuove, che anzi hanno da sempre fatto parte del bagaglio compositivo di Mr. Rostén e che qui trovano una collocazione ideale, come mai prima d’ora. Cito anche, e doverosamente, la conclusiva “Into Ashes”, a mio giudizio altra vetta del disco: una canzone vorticosa e soffocante, giocata su ritmi davvero disumani, che unisce con naturalezza l’ortodossia più quadrata e rigorosa ad una ferocia esecutiva tanto levigata e precisa da rappresentare il sogno proibito di centinaia di bands sparse per il globo.

Arioch si conferma insomma musicista sopraffino e dal background variegato, dimostrando ancora una volta che si può fare black metal pur senza affidarsi necessariamente all’improvvisazione da cantina e alla bestialità fine a sé stessa (che possono avere, ed effettivamente hanno, il loro fascino ma che troppo spesso finiscono per essere la proverbiale foglia di fico che serve a mascherare la totale mancanza di talento ed inventiva). Tirando le somme, possiamo dire che in “Deiform” tutte le caratteristiche salienti del sound targato Funeral Mist vengono esaltate e collocate in un insieme che risulta essere qualcosa di più della semplice somma degli elementi che lo compongono. Probabilmente il miglior album di questa diabolica creatura e di sicuro uno dei migliori album dell’anno appena concluso.