Nell’Edda in prosa gli svartalfar sono gli elfi oscuri che abitano il sottosuolo o le foreste. Nella musica estrema che a noi piace tanto invece gli Svartalfar sono un malefico duo austriaco che ha iniziato a incendiare la scena locale all’inizio del nuovo millennio, per poi sparire nel nulla dopo il disco del 2004 “Der Stille Fall”. Abbiamo davanti una di quelle realtà a cui il termine underground calza alla perfezione: black metal ortodosso proveniente direttamente dalla seconda ondata, con qualche escursione acustica a creare atmosfere malsane, immagine canonica e praticamente zero informazioni sui componenti della band. Questa serie di elementi, banali e scontati quanto volete, ci fa tornare indietro di venticinque anni, quando il black metal era un genere sciagurato e avvolto dal mistero. Ma se in molti casi tutto ciò è sinonimo di noia, con “Geisterwerk” il discorso è opposto. Certo, se dicessimo che conoscevamo già il duo della Carinzia diremmo una grandissima cazzata: la loro connotazione underground faceva sì che fossero probabilmente sconosciuti anche ai blacksters più nerd; tuttavia il ritorno della band, dopo oltre quindici anni di silenzio, non poteva essere più maestoso e, udite udite, abbiamo trovato in questi trentotto minuti di black metal ortodosso ma egregiamente prodotto una vera e propria sorpresa.
Basterebbe guardare le loro facce da delinquenti, coperte da un face painting che ricorda tanto i Marduk dei primissimi lavori, per capire che Blot e Mallorn fanno sul serio, picchiano duro e hanno le idee ben chiare, ma è premendo il tasto play che veniamo catapultati direttamente nel loro mondo magico: una magia che ci riporta alle pagine di un qualche numero di Grind Zone di metà anni novanta perché tutto qui suona spontaneo e tenebroso, tanto da sembrare uscito direttamente da quegli anni. Tra questi pezzi insomma si respira aria di storia e tutto fila tutto alla perfezione: ascoltando un brano come “Von Geisterhand”, il cui riffing è talmente gelido che al cospetto una passeggiata in montagna a dicembre assumerebbe i connotati di una gita ai tropici, è impossibile non provare quelle sensazioni che abbiamo provato quasi trent’anni fa ascoltando le prime canzoni black metal della nostra vita, soprattutto se provenienti dalla fredda Norvegia, terra d’ispirazione per il duo austriaco. Ma non pensiamo al classico disco che scimmiotta quello che fu: piuttosto abbiamo a che fare con un lavoro che sembra rimasto ibernato in un ghiacciaio per essere poi riesumato in perfette condizioni, senza bisogno di alcun restauro.
Ed è così che in brani come “Omen” l’influenza dei primi Mayhem è talmente chiara da trasportarci nei sotterranei dell’Helvete, seppure con una maggiore cura delle linee melodiche delle chitarre, mai eccessiva ma funzionale al contesto, in un perfetto mix tra Norvegia e Svezia che crea un connubio letale. La difficoltà sta nel trovare un brano migliore dell’altro ma forse è con la conclusiva “Im Bannd Deiner Stille” che ci si rende conto definitivamente delle capacità di questi ragazzi: un brano che si articola per oltre otto minuti, dove la matrice atmosferica risulta preponderante e sfocia in un coro con controcanti puliti epici e malinconici. Ascolto dopo ascolto, questo lavoro riesce a farsi apprezzare soprattutto da chi ha iniziato ad ascoltare musica estrema con la vecchia scuola e non è avvezzo a influenze stilistiche più moderne, qui totalmente assenti: complici una performance strumentale e vocale di livello ed una produzione che avvalora chitarre ben definite e vocals dinamiche e d’impatto, “Geisterwerk” riuscirà a soddisfare in primis chi è ancorato alle origini terribili del black metal, ma pure i più giovani, che vogliono avvicinarsi a sonorità più vintage senza necessariamente perdere l’udito con suoni zanzarosi provenienti da grotte sperdute.