Che i Livløst fossero una band fuori dai canoni l’avevamo capito subito. Dopo il malato debutto “Cold Skin” del 2019, dove la band irrompeva con un black metal vecchia scuola ruvido e minimale, il seguente “Bråtebu” cambiava totalmente veste, per indossare abiti consoni a un canonico ambient dalle tinte dungeon synth, oscuro ed evocativo. Cosa aspettarsi a distanza di un solo anno da quest’ultima fatica? Si dice sempre che il terzo disco sia quello della verità ed effettivamente la paura nel premere play era tanta, non nel rimanere delusi dalla band (pur sempre di underground stiamo parlando) ma nel trovarci, ad esempio, di fronte all’ennesima mutazione di una realtà che a oggi ha dato davvero poche linee guida su come interpretare il proprio sound. Una copertina tipicamente black metal old school raffigurante un lago, con la foresta che gli fa da contorno e dove il bianco ha la meglio sulle tonalità più scure, è il biglietto da visita di “Symphony Of Flies”. Senza troppi giri di parole, il terzo sigillo dei Livløst rappresenta al meglio quello che può essere definito “atmospheric black metal” di spessore: non solo la band ha cambiato veste per l’ennesima volta, cercando di unire il black degli esordi a elementi atmosferici mai ruffiani ma, in questa sua nuova incarnazione, ha raggiunto picchi elevatissimi di qualità nel genere proposto, tanto da lasciarci totalmente sbalorditi. Un viaggio che dura quaranta minuti, dove c’è spazio per elementi ambientali e sfuriate black metal che farebbero cadere Belzebù dal suo trono, con suadenti stacchi di synth che si alternano con eleganza a disumane sfuriate di blast beat e urla infernali.
L’inizio ad opera della title track è il migliore possibile: un brano articolato, dove la band tira fuori tutto il suo repertorio e riassume al meglio il contenuto del disco, tra accelerazioni bestiali, rallentamenti inquietanti, riffing malato e urla deprimenti. Ci pensa la seguente “No Reason” a portarci su lidi più rarefatti, con la componente atmosferica a farla da padrona grazie a una miscela letale di sintetizzatori e mid tempos che enfatizzano il lato più depressivo e riflessivo del duo norvegese, con più di un riferimento al precedente “Bråtebu”; ad onor del vero cosa presente in tutto il disco, come se la band volesse dimostrare di non rinnegare alcuna scelta stilistica del recente passato. E se “Holy Night” continua con un mid tempo trascinato e oscuro al limite del depressive, ci pensa “Angelprofume” a farci scapocciare, con il suo ritornello che rimane stampato in testa indelebilmente. Questo è il classico pezzo black metal di chiara scuola norvegese, con un riff serrato e ossessivo che non accenna a rallentare la sua corsa, e in sottofondo i synth che non fanno altro che conferire ulteriore pathos al brano, che si evolve in maniera epica e sognante, con le tastiere che prendono sempre più la scena sino a diventare elemento portante. “Red” e “Hostel” chiudono il giro, rimarcando la natura dei “nuovi” Livløst, tra mid tempos, synth e la chiara vena atmosferico/raw/depressive che si è manifestata in tutto il disco, riportandoci negli anni novanta con un biglietto di sola andata, grazie anche alla produzione che, seppur pulita, risulta un po’ debole soprattutto per quanto riguarda le chitarre e la batteria che non pompano a dovere. Dettagli che nell’underground possono e devono essere perdonati.
Con questa nuova fatica i Livløst riescono ad accontentare sia i fans del primordiale debutto che quelli del seguente capitolo, unendo queste due anime in maniera coerente e decisa, evocando i fasti della vecchia scuola norvegese in più di un’occasione, tra echi di Dismal Euphony, Gehenna, Djevel o primi Ulver, senza mai perdere quel tocco di personalità che sta facendo diventare “grande” la band. Non un capolavoro ma davvero un ottimo album che potrebbe rappresentare, per il periodo storico nel quale esce, un vero e proprio “must have” del genere proiettando la band in quella nicchia che sta facendo tornare dove merita la scuola norvegese.