Gli Aethyrick ormai non hanno bisogno di presentazioni, non perché pionieri o cose del genere (il loro disco d’esordio risale infatti al dicembre 2018) ma perché puntualmente, con cadenza annuale, pubblicano un album; ed ogni album sottolinea la crescita compositiva di questa band, che riesce comunque a rimanere fedele a sé stessa senza snaturare la propria proposta. A dodici mesi circa dal buon “Apotheosis”, “Pilgrimage” rappresenta la loro quarta fatica sulla lunga distanza e conferma ciò che di buono avevamo sentito dal duo finlandese, restando ben ancorato alla scena underground locale, di cui mantiene tutti i crismi, tra melodie disturbate e deprimenti, agonia e tristezza. Questa volta la band però alza il piede dall’acceleratore in favore di una maggior enfasi sui mid tempos e su atmosfere tristi e malinconiche, fredde come la neve e taglienti come lame, con il riffing insistente, la batteria martellante e le urla laceranti a farci compagnia per oltre quaranta minuti. Nulla di nuovo all’orizzonte ma le atmosfere non propriamente solari sono ricamate appositamente per incorniciare un concept lirico ben preciso, un vero e proprio pellegrinaggio, come suggerisce appunto il titolo, un viaggio nel mondo Aethyrick sempre più profondo e meditativo; ed ecco il perché di questa andatura lenta e pachidermica. La band spiega che il fil rouge che collega la prima traccia all’ultima è triplice.
Lo strato esterno racconta la storia di un individuo che si libera dalla quotidianità e dai suoi simili andando a vivere in un deserto dove può banalmente essere il re del suo stesso regno senza più tornare indietro. Al di sotto di questa narrazione se ne può individuare una maggiormente poetica, che racconta di un graduale cambiamento nella percezione della sua appartenenza al mondo naturale anziché al mondo prettamente materiale. Le otto tracce rappresentano infine gli otto passaggi di un rito di fondazione che ha dato vita ad Aethyrick. Non un concept facile, e di sicuro non banale, che si snoda attraverso canzoni sufficientemente intense come se, con la sua musica, la band volesse avvolgere l’ascoltatore e trascinarlo lungo il suo pellegrinaggio. La struttura dei pezzi è articolata tra cambi di tempo che mantengono una base mediamente lenta: croce e delizia del disco in quanto, se da un lato si riesce a dare maggior pathos al dispiegarsi del concept, dall’altro il potenziale rischio di skippare potrebbe essere dietro l’angolo.
La sola “A Brother To The Stars” sembra avere il coraggio di infrangere questo moto costante, seppur non priva di rallentamenti, delegando ai restanti pezzi di costruire lo zoccolo duro più epico dell’album, dal quale emergono il grande lavoro della sei corde e le belle linee vocali, tanto suadenti quanto letali. “Pilgrimage” sorprende pure per la produzione, che risulta vintage ma senza essere mai fastidiosa, dando la possibilità di seguire tutti gli strumenti senza il classico e fastidioso effetto riverbero, soprattutto una batteria sugli scudi (micidiale il suono del piatto china, una delle cose più fighe del disco). Gli Aethyrick proseguono quindi la loro marcia alla conquista dello scettro del black metal finlandese più triste e nostalgico, grazie ad un lavoro che assume un’andatura più pesante che in passato, anche per i synth “mistici”, che formano una sorta di spina dorsale in tutte le composizioni, sottolineando i costanti mid tempos con la loro agrodolce oscurità. Un disco difficile ma dall’indubbia qualità: agli Aethyrick va riconosciuto il merito di aver creato nel giro di pochi anni un sound riconoscibile all’interno del mondo black metal più tradizionale senza cedere eccessivamente alla nostalgia e senza concedere troppo alla “modernità”.