A tre anni di distanza dall’album di debutto “Helios Manifesto”, tornano a far sentire la propria voce i torinesi Feralia con questo nuovo “Under Stige / Over Dianam”, pubblicato sotto l’egida della nostrana Time To Kill Records in un’edizione che comprende anche il precedente ep, interamente acustico, “Over Dianam”, uscito nel 2000 e del quale ci siamo già occupati sulle nostre pagine virtuali. La principale novità in casa Feralia, per quanto riguarda la line up, è l’ingresso in pianta stabile alla voce di Erymanthon Seth, già mente e motore del progetto solista Apocalypse, decisamente ispirato alla creatura Bathory nella sua veste più epica, la cui ugola si presta efficacemente alle atmosfere di stampo naturalistico che continuano ad essere un marchio distintivo della proposta musicale della band nostrana. Infatti, rispetto alla precedente fatica sulla lunga distanza, i nostri amici conservano un’indubbia continuità compositiva di fondo, che rappresenta in un certo senso la loro peculiare identità nell’ambito del panorama black underground tricolore, ma danno anche prova di aver perseguito una linea evolutiva che ha permesso loro di arricchire il sound, senza fossilizzarsi completamente su soluzioni già adottate in passato, segno che in questi anni sotto questo punto di vista di lavoro ne è stato fatto parecchio.
Come tracciare quindi le coordinate stilistiche di questo disco? In prima approssimazione si potrebbe dire che i Feralia suonano un black metal feroce ed atmosferico al tempo stesso, che non rifugge dalle più classiche sferzate di stampo nordico ma che mette in mostra soprattutto un certo piglio spirituale e meditativo e che si traduce in canzoni dalle strutture piuttosto varie ma comunque in grado di catturare l’attenzione dell’ascoltatore grazie a spunti più immediati. E possiamo anche ravvisare, come detto, una certa varietà compositiva, che resta comunque confinata in una visione d’insieme coesa e coerente rispetto agli intenti della band. E così abbiamo sfuriate misticheggianti che ci catapultano direttamente in una foresta oscura e popolata da entità incorporee, rimandando a sonorità care a gruppi come i Negura Bunget, ma anche passaggi più solidi e muscolari, intrisi di un’epicità tragica e dolente (“Marcia Funesta” ma anche la title track, nella quale i costanti tappeti di synth giocano un ruolo assolutamente di primo piano), accanto a momenti dal sapore folkeggiante (“Intro – Laudatio Funebris” è emblematica da questo punto di vista), che non scivolano mai nel festaiolo e mantengono invece sempre un andamento sospeso tra il solenne e il malinconico, alla Wyrd per intenderci, sfociando in accenni acustici che anticipano quello che sarà il tema dominante della parte conclusiva del disco.
Mentre gli Ulver e certi Borknagar continuano a rappresentare un punto di riferimento per la musica dei Feralia, i nostri amici si aprono anche a soluzioni in parte inedite: da un lato abbiamo un inasprimento del sound, che ci riporta addirittura agli Emperor dei primi tempi (cito “Manes” ad esempio, uno degli episodi più duri e spigolosi di tutto l’album); dall’altro invece si esplorano territori dal retrogusto quasi dark, con il basso che detta le sue linee pulsanti ben in evidenza ed un cantato pulito mai eccessivo ma anzi intriso di una composta sofferenza, tra l’ossessivo ed il sognante, che rende questi momenti tra i migliori del disco (ne sono un esempio “The Pyre And The Stars” e “Vigil”, probabilmente le due canzoni più dirette e facilmente memorizzabili). Molte influenze dunque e solo all’apparenza distanti tra loro, in quanto l’ensemble italiano riesce con naturalezza a mescolarle bene, senza particolari forzature, dando vita ad un lavoro affascinante che, come si è soliti dire, finisce per essere qualcosa di più che la semplice somma degli elementi che lo compongono. Certo, non siamo di fronte ad un disco di immediata assimilazione, anzi questo “Under Stige / Over Dianam” richiede diverse sessioni per essere assimilato come si conviene, per fare in modo che ci conquisti, ma si tratta di uno sforzo che vale davvero la pena di compiere. Non penso di esagerare dicendo che un album del genere, se fosse uscito nel periodo d’oro di un certo tipo di black metal al quale è chiaramente accostabile (diciamo a cavallo tra la fine degli anni novanta e l’inizio degli anni duemila), sarebbe forse potuto diventare un piccolo classico, ma anche oggi può ritagliarsi il suo spazio, pur nell’ambito di una scena underground sempre più inflazionata da gruppi e dischi di dubbio valore.