Andiamo a conoscere questa one man band che arriva dagli Stati Uniti (dal Minnesota per la precisione) e che nell’arco di dieci anni di esistenza ha già alle spalle ben quattro full length, dimostrando così una certa costanza produttiva. Cam Sather è il polistrumentista, mente e motore che si nasconde dietro a questo progetto solista, focalizzato su un’interessante mistura di black e doom metal, che si lascia imbastardire in lungo e in largo anche da altre influenze più o meno marcate, che vanno dal funeral più tetro allo sludge più roccioso, fino a lambire accenni folkeggianti qua e là, comunque sempre improntati ad una certa malinconia di fondo. Detto in questi termini potrebbe sembrare un’accozzaglia poco coesa e invece non è affatto così, come dimostra quest’ultima fatica sulla lunga distanza, che segue il percorso dei suoi predecessori ed abbina a sonorità tristi, cimiteriali e pesanti come la peperonata con le cozze a colazione, un concept incentrato su alcuni scritti di William Blake che riecheggia vaghe idee romantiche.
La varietà, in un contesto che però resta sostanzialmente coerente, è un elemento fondamentale di questo “Cut The Rivers Vein”, che alterna pezzi concentrati in circa cinque minuti ad altri decisamente più lunghi ed articolati, che superano abbondantemente i dieci minuti, come ad esempio “Lowered Cloud”, la title track o la conclusiva “Breach & Bitter”. Ed è proprio in questi ultimi che il nostro eroe riesce a dare il meglio di sé, offrendoci tutta la gamma di stili ed influenze che caratterizzano la sua musica, come un caleidoscopio sfumato in varie tinte di grigio. Ed ecco che, accanto ai più furiosi scoppi di rabbia tipicamente black, con tanto di tremolo d’ordinanza e frenetici blast beats, trovano ampio spazio divagazioni doomeggianti che spesso e volentieri trascolorano in vortici melmosi e ultra lenti, in un’alternanza certamente non del tutto nuova ma che in quest’occasione viene reinterpretata in maniera sufficientemente personale.
Anche gli squarci acustici che costellano i pezzi dimostrano di avere il loro perché nel contesto generale, che non rifugge affatto la violenza ma gioca le sue carte principali puntando soprattutto sulle atmosfere deformate, paludose e acide che i ritmi lenti sembrano far scaturire con grande naturalezza dalle note sofferte e distorte. Una discreta ed efficace varietà riguarda, come un giusto contraltare, anche il cantato, che passa da uno screaming piuttosto acuto ad un growling ringhioso, senza tralasciare brevi ed evocativi passaggi in clean vocals e parti recitate che conferiscono ad alcuni momenti un certo piglio narrativo, non disprezzabile, che spezza leggermente la tensione prima che la cappa di mestizia torni a calare inesorabilmente sulle nostre teste. Si ha la netta sensazione che un grosso macigno ci possa schiacciare da un momento all’altro ma ecco che arriva la melodia più luminosa o il passaggio più arioso a salvarci, o almeno a concederci un momento di respiro. In questo disco c’è qualcosa che potrebbe piacere a un fan degli Evoken o dei Nortt e qualcosa che potrebbe interessare chi segue certo post-black meno cervellotico, e ancora qualcosa, specie quando la musica si fa più intima e “delicata”, che richiama la così detta corrente “cascadian”, che proprio nell’underground a stelle e strisce è nata e si è sviluppata, per poi trovare terreno fertile anche altrove (scivolando in alcuni casi, devo dirlo sinceramente, in melensaggini abbastanza insulse, almeno a mio giudizio). Un disco interessante, che tra l’altro gode anche di una buona registrazione: ascolto consigliato a tutti coloro che vogliono immergersi in scenari autunnali con il loro bel carico di afflizione sulle spalle, abbandonando per una volta le più classiche montagne innevate del Nord Europa.