A cinque anni di distanza dalla pubblicazione del debutto “Mortaliter”, ecco che tornano a far sentire la propria voce i romani Ulfhednar, con questa seconda fatica intitolata “Il Culto Dell’Agonia”. Se il predecessore era il classico disco “minestrone”, con alcune buone idee ma privo di una direzione precisa, questo nuovo lavoro, che si presenta con una copertina francamente non bellissima, in parte corregge il tiro ma lascia d’altro canto ancora emergere una certa tendenza a mettere, come si suol dire, troppa carne al fuoco, risultando in alcuni frangenti dispersivo, a discapito di un discorso compositivo e stilistico che avrebbe potuto risultare più armonico e diretto, almeno a mio giudizio. Gli Ulfhednar passano all’utilizzo in via esclusiva, almeno su questo platter, della lingua italiana ma mantengono intatta la dicotomia di fondo che caratterizza la loro proposta fin dagli esordi, ovvero un’alternanza sistematica tra parti black più tradizionali e di classica estrazione scandinava e momenti invece decisamente death oriented, direi in linea di massima più di scuola americana che europea.
Da un lato la glaciale ferocia del black metal (mi pare che vengano chiamati in causa soprattutto certi Immortal o Mayhem, ma non solo), in questo caso appena sporcata da aperture più melodiche o epiche; dall’altra la soffocante pesantezza del death, sulla scia di gente come Incantation e simili, per rendere l’idea. Alternanza che si riverbera anche nel cantato, con lo screaming che lascia spesso e volentieri il posto al growling (per poi riprendersi la scena più avanti nel corso dello stesso pezzo), entrambi interpretati in maniera abbastanza convenzionale, seppure con discreta enfasi.
Non credo si possa parlare di black/death metal in senso stretto nel caso degli Ulfhednar perché non c’è un vero e proprio connubio tra i due generi e la loro musica è sostanzialmente riconducibile al black metal ma appunto con le ampie disquisizioni death di cui abbiamo parlato. In alcuni casi questo accostamento sembra funzionare, come ad esempio in “Atarassico”, che parte con un piglio death decisamente cimiteriale e poi lascia spazio alla furia più chirurgica di certo black di stampo tradizionale.
Tuttavia, anche dopo ripetuti ascolti, ho avuto la netta sensazione che la band riesca a suonare in modo più fluido e ad ottenere risultati più apprezzabili quando si concentra su partiture classicamente black, focalizzandosi su un riffing forse più consueto ma sicuramente più confacente, che qui viene comunque reinterpretato in modo abbastanza convincente, come ad esempio avviene nelle iniziali “Alterco” e “Punto Omega”, che per quanto mi riguarda rappresentano gli episodi più riusciti dell’album, grazie ad un buon tiro e ad un certo piglio epico che non guasta. Nonostante qualche perplessità da parte di chi scrive, siamo comunque di fronte ad un disco assolutamente dignitoso, che non sfigura nel contesto della scena underground italiana e che potrà essere ascoltato con piacere da quanti non disdegnano il black metal di stampo classico con alcune contaminazioni sempre virate all’estremo. Probabilmente la prossima prova ci dirà in via definitiva chi sono gli Ulfhednar.