La Grecia sente il metal come pochi paesi in Europa e forse nel mondo. La scena è sempre attiva e lo dimostrano le numerosissime band locali così come i supporters che accorrono ai molteplici eventi organizzati nella Capitale e nelle altre città. Questa volta ci siamo diretti in Attica il festival doom “Demons Gate”, alla sua seconda edizione dopo la prima del 2019, e il tabellone è di sicuro interesse per chi è avvezzo al genere. La nostra attenzione purtroppo si è dovuta limitare alla seconda giornata dell’evento per motivi contingenti, con un’enfasi particolare sui Tiamat, cult band che, in un modo o nell’altro, è una di quelle fondamentali nel genere (e non solo, vista la successiva virata stilistica che ha partorito dischi altrettanto seminali), grazie a capolavori del calibro di “Clouds”e “Wildhoney”, gemme di death/doom così come “Prey” lo è del gothic metal di classe. La carne al fuoco è tanta, e se il primo giorno Draconian, AHAB ed Ereb Altor si sono condivisi la posta di band più importante, la seconda frazione del festival ci ricorda che gli Isole e i Memory Garden sono tra i migliori gruppi doom in circolazione, seppure non abbiano mai avuto il riscontro di pubblico che meriterebbero.
Ed è proprio con queste due band che per chi scrive il festival inizia al Kyttaro Live Club di Atene. L’affluenza è, come di consueto nella capitale greca, di assoluto livello e il pubblico ci mette molta passione, come se si trattasse di concerti di realtà dalla visibilità decisamente maggiore. La location è il classico locale dalla capienza media, su due livelli, nel quale il calore del pubblico si fa sentire tra fumo, alcol e corna al cielo. Tutto è perfetto per un contesto simile e, se per le prime band non siamo riusciti ad arrivare puntualmente, possiamo dire che lo show degli Isole e dei Memory Garden è stato davvero di un impatto devastante, lasciando scorgere sprazzi di classe cristallina. Ma noi siamo lì per il combo svedese, che ha scritto pagine indelebili nella storia del metallo (estremo e non solo) che, nonostante alcune recenti apparizioni non esaltanti, non si sono mai sbiadite e rimarranno incise nell’acciaio sino alla fine dei tempi. Johan Edlund e il fido scudiero Lars Sköld sono ciò che rimane della formazione “storica”, quella che può essere identificata da “A Deeper Kind Of Slumber” in poi, affiancati da Gustaf Hielm ormai stabile bassista del combo di Stoccolma. I tempi dei Treblinka sono remoti mentre i fasti doom di “Wildhoney” ormai iniziano ad avere quasi tre decadi ma ciò non impedisce al gruppo di richiamare tantissimi appassionati ai quali interessa poco dello stato attuale della band (che da dieci lunghi anni non esce con un nuovo disco); siamo qui per loro, pronti a danzare su ogni singola nota dei maestri. Con la speranza che la band (specie Johan) sia in giornata positiva, le luci iniziano ad abbassarsi e l’intro di “Wildhoney” invade il Kyttaro Club, accompagnato dall’ovazione dei presenti, che fissano il palco come se fosse l’altare alla messa domenicale del paese.
Esplode “Whatever That Hurts” che, insieme a “The Ar”, “Visionaire” e “Do You Dream Of Me?” rappresenta il primo blocco di pezzi che mandano su un’altra dimensione il pubblico, totalmente fuori di testa. La cosa che più sorprende è vedere Johan finalmente dimagrito e in buona forma, seguito da una band coesa che, seppure con qualche sbavatura nell’esecuzione di alcuni pezzi, riesce a offrire una performance degna del moniker che porta. Il secondo blocco della setlist viene direttamente da quel masterpiece death/doom che prende il nome di “Clouds”, e quindi abbiamo “In A Dream”, “Clouds”, “Smell Of Incense” e “A Caress Of Stars” che infuocano gli animi dei più attempati come dei più giovani.
Ma, come ogni vero artista che si rispetti, Edlund è sempre sopra le righe, e proprio nel corso di quest’ultimo pezzo gli viene la strabiliante idea di dedicare la canzone alla sua “squadra di calcio del cuore”, l’MPAOK, acerrima rivale dei team ateniesi, facendo incazzare non poco qualche presente, che se la prende con il nostro beniamino in maniera perfino eccessiva. Superato il piccolo incidente diplomatico, da qui in poi il live diventa una sorta di greatest hits della band, che tocca tutti i lavori più gotici, con pezzi fondamentali nel genere come “Cain” e “Vote For Love”, passando per le più alternative “Cold Seed” e “Phantasma Deluxe” (un’esecuzione da brivido) e una “Brighter Than The Sun” spezzata in due forse a causa dell’eccessiva dose di birrette ingerite dal singer.
Ma a noi non importa la precisione chirurgica, tutti ballano e si divertono, vuol dire che la band sta facendo bene il suo lavoro e vedere oggi, nel 2022, i Tiamat ancora su un palco dopo le ripetute voci di scioglimento, è una fortuna nonché un piacere.
La chiusura è affidata alle immancabili “The Sleeping Beauty” e “Gaia”, che concludono in grande stile un live davvero positivo per la band, che si riscatta dopo alcune uscite non proprio dignitose, anche se il “disastro” è dietro l’angolo. Nel momento in cui il nostro eroe abbandona il palco e si dirige verso il back stage, un pirla che si era legato al dito la fede calcistica del singer, gli rifila una doccia di birra/acqua che lo fa tornare sul palco ad attendere la fine dell’esecuzione strumentale, nonostante Lars da dietro le pelli gli consigliasse di dirigersi verso l’uscita dal lato opposto.
Alla fine del brano Johan prontamente chiede il motivo di tale gesto, sottolineando che ha vissuto anni ad Atene ed ama la città e qualsiasi cosa abbia detto era per mera ironia. Il pubblico applaude e Johan si dimostra davvero un gentleman mentre l’infervorato pseudo supporter prima si prende un cazzotto in bocca da un presente, infastidito per il vigliacco bagno ai danni del suo eroe, e poi viene sbattuto fuori dal locale (e, ad Atene, la security è molto più “primitiva” che in Italia).
La serata si conclude con Edlund e Sköld che firmano autografi, parlano con i presenti e si concedono a fotografie, uscendo come i veri vincitori di questa bella edizione del “Demons Gate Festival” con una performance che, seppur lontana dagli anni d’oro, ci fa tornare indietro nel tempo, alimentando le speranze di un nuovo disco (ma questa è un’altra storia). Atene si rivela anche in quest’occasione una vera capitale per il metal underground sotto molteplici aspetti, da quello meramente organizzativo all’affluenza di pubblico che (al netto del deficiente sopra citato) si è dimostrato positivamente partecipe e decisamente coinvolto. Lunga vita ai Tiamat e agli eventi di nicchia come questo.