Il lungo e assordante silenzio della band da “Sorrow” ad “Hour Of The Centaur” è durato la bellezza di quindici anni, durante i quali il leader maximo Roman Saenko ha messo in ordine le idee e colto ispirazioni nuove ma senza snaturare il sound violento, dannato e malinconico che ha reso la sua band iconica grazie a dischi come “Purity”. All’ucraino questa volta sono bastati due anni per partorire una nuova fatica, la sesta di lunga durata nella sua discografia ventennale. Infatti, nuovamente via Osmose Production, ecco che giunge nelle nostre mani consumate questo nuovo “Innermost”, un disco che non è nient’altro che il naturale prosieguo del buon predecessore, non modificando di una virgola l’approccio classico del progetto e offrendoci semplicemente una nuova mezz’ora abbondante di massacro senza tregua, come da tradizione. Mai di facile ascolto, questa è la classica band che si ama o si odia appunto per la concezione di black metal del tutto anticonvenzionale, che potrebbe far storcere il naso ai puristi del genere. Infatti, se la costante accoppiata tra tremolo e blast ci riporta ai clichès del genere, il growl cavernoso e monocorde sarebbe più facilmente accostabile a quello di una death metal band proveniente dalla Florida. L’unione dei due stili non è per nulla scontata ma Saenko è un maestro in questo e riesce nell’ardua impresa di regalarci l’ennesimo buon disco di furia e rabbia, che si abbatte minuto dopo minuto contro le nostre innocenti orecchie, lasciandoci sprazzi di genio misto a qualche pezzo canonico e non memorabile, ma pur sempre suonato alla perfezione.
Ci troveremo ad affrontare un percorso impervio tra devastazione e desolazione, misticismo e oscurità, un’avventura di cui non si conosce l’epilogo, come se fossimo in un librogame della serie “Lupo Solitario”, tra intemperie, trabocchetti, incidenti di percorso e personaggi mitologici a sbarrare il nostro cammino. Un’avventura appunto, ecco come potremmo definire l’ascolto di questo “Innermost”, che non sposta gli equilibri fissati dal progetto nel corso degli anni, anche se questa volta forse assistiamo a una sorta di catarsi, con composizioni che rimangono snelle, dirette e primitive, mettendo da parte ogni tecnicismo. Si inizia alla velocità della luce e si finisce allo stesso modo, lasciando ai break acustici sparsi il compito di farci tirare leggermente il fiato. Croce e delizia dell’album, spesso il minimo comune denominatore del disco è la monodirezionalità dei pezzi, molto simili tra loro in quanto a struttura e bpm, con le vocals in growl che, al netto di qualche scream, risultano molto monocordi e forse poco dinamiche, non rendendo del tutto giustizia al guitarwork che, invece, è sempre molto vario come ad esempio in “Ice-Cold Bloodless Veins” e “Whiteout Silence”.
Gli Hate Forest sono questo, come nella doppietta iniziale formata da “Those Who Howl Inside The Snowstorm” e “By Full Moon’s Light Alone The Steppe Throne Can Be Seen”, che ci lascia a bocca aperta grazie alle fenomenali aperture melodiche e ai cambi tempo da sincope, sino ai classici break atmosferici che mettono i brividi, così come in “Temple Of The Great Eternal Night”, un pezzo tirato, violento ed imponente, abbellito da sognanti inserti acustici che non possono lasciare impassibili. Una cavalcata disperata in una valle di lacrime, nonostante l’ispirazione vada a corrente alterna, rendendo questo lavoro non il capolavoro che sempre ci si aspetta da band così blasonate. Il tutto prodotto in maniera ottimale, con suoni devastanti anche se leggermente compressi ed ovattati, come nel precedente platter. Chi segue la band da una vita sarà soddisfatto nel vedere il proprio eroe tornato produttivo come un tempo, per chi ancora non la conoscesse questo disco potrebbe risultare un buon modo per iniziare a entrare nel loro miserabile mondo. Ossessivi.