La scena estrema giapponese, forse poco considerata ma ricca di realtà interessanti anche al di là della consueta manciata di nomi più noti, riserva sempre strane sorprese. È il caso di Kanashimi (ovvero “dispiacere”, “tristezza”), one man band proveniente per la precisione da Shizuoka, dietro la quale si cela il factotum O. Misanthropy che, come probabilmente potrete intuire dal moniker del suo progetto, dallo pseudonimo e dalle foto promozionali, non è propriamente impegnato a celebrare la positività e la gioia di vivere in tutte le sue forme. “Yamiuta”, che esce sotto l’egida dell’etichetta austriaca Talheim Records ben sei anni dopo il predecessore “Inori”, è la terza fatica sulla lunga distanza di questa creatura e segna un parziale cambiamento di approccio in quanto dal più canonico depressive black doom dei precedenti lavori si passa a quello che lo stesso mastermind definisce “romantic black metal”, etichetta che farà immediatamente storcere il naso ai difensori della pura ortodossia, i quali non ascolteranno l’album per principio e si perderanno così un intenso viaggio emotivo nell’“oscurità del cuore” (tema comune a tutte le canzoni qui presenti, sempre secondo le parole del nostro amico). Questo disco è costruito sul protagonismo pressoché assoluto del pianoforte, che si prende la scena dall’inizio alla fine, relegando le chitarre in secondo piano, quasi una sorta di accompagnamento ambientale.
Tempi lenti (non lentissimi, non vengono sfiorati lidi funeral) ed un cantato dolente, lontano ed evocativo, che prende le distanze in modo abbastanza netto dal tipico screaming lacerante che contraddistingue i dischi depressive nell’accezione più comune del termine, fino a sfociare nelle clean vocals meste e sognanti della conclusiva “Lullaby”, che vede la partecipazione come guets vocalist di Crying Orc dei Këkht Aräkh. Le influenze degli esordi, riconducibili in linea di massima a gruppi come Nocturnal Depression o Happy Days e più in generale a tutta quella corrente depressive che declina con piglio più malinconico gli struggimenti interiori e le pulsioni suicide, restano comunque in evidenza ma a queste si aggiungono suggestioni shoegaze vagamente alla Alcest prima maniera e pure qualcosa di gruppi come Woods Of Infinity e Lifelover, per un risultato finale particolarmente compatto dal punto di vista sonoro, che riesce anche ad essere decisamente coinvolgente in alcuni frangenti, laddove le tristi ed ossessive melodie di pianoforte riescono ad imprimersi meglio nella testa di chi ascolta.
È il caso ad esempio dell’opener “The Funeral Song” o di “Yurari Yurari”, a mio avviso gli episodi migliori del lotto, quelli nei quali l’impostazione stilistica del lavoro fluisce nel modo più naturale e si lascia apprezzare proprio per la sua spontaneità.
“Yamiuta” è un po’ un disco “di confine”, nel senso che non rientra completamente nei canoni del black metal di matrice depressiva consolidati nel corso degli anni, pur essendo ovviamente riconducibile a questo filone: sarà per la presenza massiccia del pianoforte, sarà per il piglio quasi dark di molti passaggi, sarà perché i brani fanno dell’atmosfera il loro elemento di forza senza tuttavia mai rinunciare ad una forma canzone ben delineata e tutto sommato classica, sarà che le melodie riescono ad essere semplici ed accativanti ma al tempo stesso non melense, fatto sta che qui abbiamo una rilettura piuttosto personale (anche se non del tutto originale) di un sottogenere da tempo ormai saturo, che sostanzialmente ha detto quasi tutto ciò che aveva da dire. Il che, considerati i tempi che corrono, mi sembra che non sia cosa da poco.