C’era una certa aspettativa circa la nuova release di Afsky, one man band danese affermatasi sulla scena estrema con il buon “Ofte Jeg Drømmer Mig Død” grazie ad un collaudato black metal intriso di deprimente melodia. Ole Pedersen Luk, mente del progetto, era quindi atteso al varco per smentire che si trattasse di un fuoco di paglia e possiamo dire che è riuscito nell’impresa. Il nostro folletto biondo non deve aver passato un’infanzia felice, ascoltando Burzum, affilando lamette, affacciato alla finestra da solo, senza mai vedere il sole e aver mai ricevuto un regalo di Natale, perché questo album è quanto di più malinconico abbia sentito da diverso tempo. Quarantacinque minuti divisi in sei lunghe e articolate tracce dove l’essenza del black metal più classico, fatta di tremolo, blast beat e urla laceranti è portata al labile confine con l’isteria e l’ossessione, tanto che perfino l’ascoltatore più ortodosso probabilmente non riuscirà ad arrivare alla fine senza qualche pausa. Il sound di Afsky è così, ti mette davanti a uno specchio e ti fa dubitare della tua sanità mentale grazie al suo piglio ipnotizzante e ai riff ripetuti all’infinito ma con una produzione di buona fattura e un’interpretazione ineccepibile.
La musica del danese è dolorosamente profonda e mescola sapientemente un doom atmosferico e sofferente a sprazzi folk, in un gioco di equilibrio che è la forza trainante di un lavoro che affonda comunque le sue radici nella scuola classica, tra chitarre acute, vocals strazianti e batteria minimale. Ogni singola traccia è egregiamente orchestrata tra accelerate e break acustici, in una serie di sbalzi emozionali con la costante di dare corpo a una sensazione di pura sofferenza. Questo approccio è ben espresso nei primi tre brani, vera rassegna dell’attuale proposta musicale targata Afsky: “Stormfulde Hav” tra tremolo e blast che si alternano a cupi break e fraseggi acustici che fungono da ponte per la seguente e lacerante “Frosne Vind”, che precede “Tak For Alt”, il capitolo più deprimente del disco, caratterizzato da un’interpretazione vocale realmente da brividi.
Non posso esimermi dal citare le ultime due tracce, ovvero “Tid”, forse il pezzo più classicamente black del lotto, seppur intriso di tristezza e abbellito dagli antichi suoni del clavicembalo, e “Fred Være Med Støvet”, sorta di riassunto del disco, con parti ambient e sezioni di transizione fluide che ci conducono ad una conclusione che riprende l’inizio, con le chitarre in solitaria dannazione come in un pianto disperato. “Om Hundrede År” è il disco che tutti ci aspettavamo da Afsky, che pure questa volta non delude le attese ma rincara la dose tra depressione e voglia di farla finita. Un disco che guarda con negatività e disprezzo il trascorrere del giorno senza mai vedere la luce in fondo al tunnel, una sofferenza autoinflitta che non porta alla redenzione. Frustrato.