Uno dei dischi underground più attesi del 2023 è finalmente uscito. Un hype giustificato, considerato che “Pilgrim”, pubblicato due anni fa, risulta ancora oggi un lavoro piacevole da ascoltare, che sembra aver superato la fatidica prova del tempo diventando una delle migliori uscite in ambito blackened death metal/black metal melodico degli ultimi tempi. Due anni portano maturazione e ti fanno mettere a fuoco la strada da perseguire e “Dust” racchiude tutto questo con i pro e i contro di un disco preciso, tecnicamente perfetto, prodotto in maniera impeccabile ma che risulta forse avere qualcosa in meno rispetto al suo predecessore. Infatti la band sembra ripetersi, rimarcando ossessivamente la propria devozione verso gruppi come Necrophobic o Netherbird in assenza di veri e propri highlights. La durata è una prima nota dolente, cinquantacinque minuti che rendono difficoltoso un ascolto fluido e snello, considerata la proposta che sa sostanzialmente di “già sentito” e che dopo la metà del disco rischia di farci flirtare più di una volta con il tasto skip, come nel caso di “The Tyranny Of I” o della seguente “Face Of Despair”, mentre le sorti cambiano leggermente con “The Wrong God” e la conclusiva “Martyr”, composizione tecnicamente complessa e ricca di spunti e atmosfere che tuttavia, essendo posta in chiusura, difficilmente riceverà l’attenzione che merita.
Potremmo quindi erroneamente pensare male di un disco che invece nel suo complesso è buono e infatti tutta la prima parte è sopra la media, con brani del calibro di “Dying In The Mud”, “Return…” e “The True Belief” che mettono in luce il vero protagonista del platter, ossia il nuovo, giovane drummer J, un mostro dalle sei braccia, che ci regala probabilmente una delle migliori performance dietro le pelli degli ultimi anni, dando ad ogni pezzo l’indispensabile dinamismo e personalità. Ci sono poi brani nella media, come l’abbastanza scontata “The Golden Calf”, impreziosita però a metà da un bel break atmosferico, mentre “Monologue” è un inseguirsi di riff e groove e “The Eve” e “Into Oblivium”, non a caso due degli episodi qualitativamente più alti, ci fanno risentire i Thron che avevano lasciato il segno due anni fa con la loro drammaticità intrisa dalla polvere del tempo andato.
La performance ineccepibile della band, che oggi vanta, oltre al polpo J alla batteria, il nuovo chitarrista Ravendust, è il valore aggiunto di un lavoro che, se avesse avuto qualche momento accademico in meno, avrebbe certamente guadagnato qualcosa. Nonostante tutto un album che si impone rispetto alle uscite dello stesso filone di quest’anno, pur senza una “Hosanna In The Highest” o una “The Reverence”, presenti nel precedente lavoro. Conferma.