Un tempo non lontano quando pensavi alla Germania ti veniva in mente qualcuno tra le centinaia di gruppi power che proliferavano in quelle terre, oggi invece pare che la fiamma più nera del metallo stia avendo il sopravvento da Monaco ad Amburgo. Tra realtà più o meno blasonate, la palude malsana dell’underground è più viva che mai e da lì arrivano gli Zwiespalt, combo di Lipsia al terzo lavoro in tre anni, che già aveva attirato la nostra attenzione. “Persistenz” è il classico disco della conferma e si posiziona come il perfetto seguito dei discreti predecessori, “Ambivalenz” e “Distanz”, con i quali condivide una sorta di concept filosofico simbolizzato dalla copertina che rappresenta lo stesso identico luogo in diverse stagioni, collegando i lavori in una sorta di trilogia (e quindi dovremo aspettarci anche il quarto episodio): la band si focalizza sul tema del tumulto interiore, ponendo l’attenzione di volta in volta su diversi aspetti e lasciando che sia chi legge ad attribuire un significato alle liriche, oltremodo personali e profonde.
Spiega la band: “nato dal caos e plasmato dall’ordine, “Persistenz” è il disperato tentativo di strappare la sublimità alla miseria. Essere bloccati in uno stato di dolore e dubbio. Soffrire sopportando l’inalterabile senza una via di scampo, accettando l’insignificanza dell’essere e abbracciando il vuoto. Un inno alla malinconia, per chi non può godere di un’altra fioritura, in attesa dell’inevitabile autunno che seguirà”.
Tradotto in musica “Persistenz” (registrato in presa diretta per quanto riguarda la parte strumentale, con vocals aggiunte in un secondo momento) può essere definito puro black metal della seconda ondata, incontaminato e radicato nel passato: musica scarna, quasi primordiale, con chitarre zanzarose, corde vocali lacerate e batteria di cartone protagoniste assolute dall’inizio alla fine. Ma non pensiamo a un disco poco professionale perché gli Zwiespalt non sono affatto degli sprovveduti e nei ventisette minuti che compongono questa nuova fatica troviamo sprazzi davvero interessanti e perfino geniali, come nell’opener “Euphorie”; in “Stille”, con il suo retrogusto rock; nella diretta “Elend”, glaciale e brutale; o ancora in “Fleisch”, una tempesta che sa tanto di thrash d’annata. Insomma i blackster di Lipsia confezionano un disco ortodosso ma non privo di tangibile personalità, che ha tutte le carte in regola per poter essere apprezzato anche dai più scettici nostalgici e più in generale da tutti coloro che guardano con disgusto a tutto ciò che è stato pubblicato dopo il 1995. Do it yourself or die!