I Marduk non hanno ovviamente bisogno di nessuna presentazione, forti di un nome ormai iconico nell’ambiente, corroborato da una longevità che ormai pochi possono vantare, così come il rispetto quasi unanime da parte della comunità blackster di tutto il mondo. Dopo una fase che è stata definita “religious”, chiaramente figlia dell’avvicendamento dietro il microfono tra Legion e Mortuus, i Marduk negli ultimi due dischi erano tornati al loro tema più caro e fortunato, ovvero quello della guerra. “Frontschwein” del 2015 e “Viktoria” del 2018 sembravano (soprattutto il primo) i nipotini di quel “Panzer Division Marduk” che ha segnato per sempre la carriera del gruppo svedese e in parte tutto il genere creando un vero e proprio filone. “Memento Mori” invece, già dall’artwork, torna a distaccarsi dalle tematiche guerresche per parlare dell’argomento per eccellenza in ambito metal, ovvero la morte. Per capire la natura di quest’album sarebbe già sufficiente soffermarsi sui crediti: Morgan, per la prima volta nella storia della band, non si è occupato del songwriting di nessuna canzone, il suo contributo compositivo si è limitato al testo di “Marching Bones” e di “Year Of The Maggot”; è stato così il buon Daniel Rostén, aka Mortuus, a prendersi carico della maggior parte del lavoro, suonando anche la chitarra in due tracce (“Blood Of The Funeral” e “As We Are”).
Sarebbe però fin troppo semplice e riduttivo definire, come molti hanno fatto, “Memento Mori” come un album spurio dei Funeral Mist, ovvero la band di cui Rostén è titolare, ma sarebbe altrettanto miope non notare delle fortissime somiglianze. I casi più lampanti sono “Blood Of The Funeral”, proprio una delle tracce in cui Mortuus ha suonato anche la linea principale di chitarra, la cadenzata “Shovel Beats Sceptre” e la conclusiva “As We Are”. Non che di per sé ci sia nulla di male e infatti le canzoni in questione sono tra le migliori del lotto, in particolare “Blood Of The Funeral”, il cui riff ossessivo e saltellante rimane immediatamente impresso. Ci sono però anche le bordate in classico stile Marduk, con le solite chitarre affilate, pesanti e martellanti, accompagnate da un tappeto di blast beat al fulmicotone, come “Charlatan”, “Coffin Carol” e “Red Tree Of Blood”, tracce che non avrebbero sfigurato nei loro classici di fine anni novanta e che sono un chiaro manifesto del black metal di stampo svedese.
La produzione è stata affidata come sempre a Magnus “Devo” Andersson, che ha ripreso temporaneamente il ruolo di bassista della band, dopo l’ormai celebre caso Lindholm. Rispetto a “Viktoria” le chitarre tornano ad avere un suono leggermente più pesante, sebbene il basso sia spesso ben udibile e la voce di Mortuus sia sempre in primo piano. Si tratta quindi di un album estremamente solido, senza particolari punti deboli e dotato di una manciata di canzoni che probabilmente andranno ad inspessire il repertorio live del gruppo, già impegnato nel proverbiale ed estenuante tour in giro per il globo. Rimane però, purtroppo, dietro l’orecchio la sensazione di un album forse un po’ troppo manieristico e artificioso, orfano del tipico timbro di Morgan, che in ambito black resta un riffmaker quasi impareggiabile e che Rostén ogni tanto sembra quasi voler imitare al fine di ricordare che quello che stiamo ascoltando è un album dei Marduk e non uno dei Funeral Mist. In ogni caso, se siete fan di una o di entrambe le band, procuratevi ad occhi chiusi “Memento Mori”, che di certo non vi deluderà e sollazzerà le vostre orecchie per parecchio tempo.