Sappiamo ben poco di questi Augur, se non che si tratta di un quintetto del Colorado formatosi nel 2016, la cui discografia è stata finora piuttosto contenuta, constando soltanto di un ep e di uno split in compagnia dei connazionali Ekelhaft. Questo “Omen” rappresenta il loro esordio sulla lunga distanza, rigorosamente autoprodotto, ed è un album dalle diverse sfumature che, a livello di influenze compositive, nel complesso sembra guardare più al classico black metal novantiano di matrice nordeuropea (ma anche di area tedesca) che alla tradizione statunitense formatasi a cavallo dei primi anni duemila, che fa capo a gruppi come Judas Iscariot, Leviathan o simili, dalla quale pure trae comunque qualche spunto. I brani contenuti in questo disco sono costruiti sull’alternanza tra parti sferzanti, veloci, violente ed aggressive ed altre più rallentate e meditative, con le chitarre che passano con naturalezza da un tremolo glaciale a melodie sulfuree dal sapore rituale.
La sezione ritmica è ordinata e segue questo andamento, adattandosi alle trame chitarristiche, che restano le protagoniste indiscusse della release, sempre in primo piano e a volume decisamente alto, a dettare i cambi di tempo e paesaggio sonoro che caratterizzano tutto il disco ed anche i singoli pezzi, mai troppo prevedibili e costruiti seguendo più il flusso emotivo che le strutture della classica forma canzone, che peraltro restano presenti soprattutto nei brani più quadrati e tirati, come ad esempio “King Of Rats”. Da questo punto di vista la proposta degli Augur mi ha ricordato in più frangenti non troppo alla lontana quella dei primi Abigor o degli svedesi Nåstrond, forse anche per l’atmosfera dal piglio occulto e medievaleggiante che si respira in diversi passaggi oppure per l’utilizzo non esagerato ma decisamente efficace degli interludi acustici che allentano la tensione e creano il giusto stacco quand’è necessario.
L’album procede senza intoppi e senza particolari cadute di tono mantenendosi su un livello qualitativo più che accettabile per tutta la sua durata e va a costituire un sentiero da percorrere per intero attraverso vari capitoli, fino alla conclusione con la title track e “In Glory Of Fire”, probabilmente le canzoni più rappresentative di quella che è la concezione di black metal del combo a stelle e strisce, in seno alla quale trova spazio anche un uso limitato ma affascinante di clean vocals dal timbro salmodiante e sofferto. Che dire in definitiva? “Omen” fin dal titolo è un disco con un retrogusto esoterico che, pur senza stravolgere nulla né tanto meno far gridare al miracolo, non deluderà i sostenitori del black metal tradizionale, giocato più sull’atmosfera che sull’impatto. Un ascolto è consigliato.