Era ora: ciò che era stato originariamente rilasciato l’anno scorso come piccolo bonus su cassetta nell’edizione boxset di “40 Years At War – The Greatest Hell Of Sodom” è finalmente disponibile come un’uscita a sé stante. I Sodom non hanno certamente bisogno di presentazioni, essendo da sempre parte del pantheon del thrash metal tedesco, e autori a inizio carriera di lavori a dir poco seminali per l’underground black/death metal all’epoca in fase embrionale. La raccolta citata aveva rappresentato un’appropriata celebrazione della loro leggendaria carriera, offrendoci una ben pensata selezione di tracce ri-registrate da ciascun loro album che riesce a non scadere nella banalità e nella ricerca della hit facile. Questo ep però è una sorpresa ancora più succosa per i fans più accaniti della band, arrivando al punto di dissotterrare qualche oscura perla tratta addirittura dai primissimi demo! Sì, proprio quei demo che ora sono considerati pezzi di culto della cosiddetta “first wave” del black metal, e che all’epoca furono già in grado di rendere quello dei Sodom un nome “caldo” nel circuito tape trading underground, fungendo da apripista per il leggendario “In The Sign Of Evil” che tutti ben conosciamo. “Più pesanti dei Venom, più veloci dei Metallica”, si definivano a quei tempi i tre giovani scalmanati tedeschi: un approccio che, mutatis mutandis, è stato mantenuto fino ai giorni nostri. Questa è l’idea su cui la title track calca pesantemente la mano: l’unico brano inedito di “40 Years At War” viene qui presentato con un missaggio più brillante, che rende maggiormente giustizia alla natura blackeggiante del riffing.
Non è tra i migliori brani in assoluto dei Sodom ma il suo incedere in mid tempo e le vocals avvelenate dell’inossidabile Angelripper vanno a costituire un orecchiabilissimo brano black/thrash che merita senz’altro più di qualche ascolto. “Eravamo disprezzati ma sempre temuti, e non vi abbiamo mai leccato gli stivali”, recita fieramente il testo, seppellendo ogni dubbio sull’attitudine senza compromessi della band, che nei primi anni ottanta rasentava la pura antisocialità, proprio come gran parte dell’ottimo metal estremo che sarebbe andata a ispirare. Ed è a quei primissimi giorni che l’ep ritorna poi. Il primo “ricaccione” è l’indimenticabile prima hit della band, “Witching Metal”, di cui viene ripristinato l’ultra-minimale main riff nell’originaria versione udibile sui demo, leggermente più punkettona e meno genuinamente “malvagia” di quella poi resa celebre dal successivo chitarrista Grave Violator su “In The Sign Of Evil”: un piccolo “easter egg” che farà impazzire i “sodomaniacs” più preparati. L’impronta punk che la band coltivava agli albori viene ulteriormente valorizzata dal recupero di “Victims Of Death”, che beneficia di quarant’anni di progressi tecnici per massimizzare il violento impatto d-beat hardcore presente a livello potenziale in quelle primissime, ingenue registrazioni da sala prove. Convince un po’ meno la nuova versione di “Let’s Fight In The Darkness Of Hell”, con un riffing thrasheggiante che risulta un po’ troppo rigido, se non addirittura “ingessato”, rispetto alla caotica fluidità della pestatissima versione originale datata 1984, quasi come se il brano venisse riproposto con il freno a mano tirato. Pezzi di quei demo come “Devil’s Attack” o “Life From Hell” sarebbero state migliori scelte per testimoniare le radici hardcore punk dei primi Sodom, risultando perfettamente complementari a “Witching Metal” e “Victims Of Death” nell’enfatizzare l’appartenenza della band a quello stesso brodo primordiale “venomiano/hellhammeriano” di matrice metal-punk da cui il black metal ebbe origine.
Fortunatamente l’ep si conclude in grande stile recuperando un brano tratto dal seminale, mai troppo osannato, capolavoro “Obsessed By Cruelty”: “Equinox” viene riproposta letteralmente “beat by beat”, omaggiando perfettamente a livello ritmico l’immensa creatività del compianto batterista Witchhunter (pace all’anima sua), presente in ognuno dei suoi fill e dei suoi stacchi dall’impostazione non esattamente ortodossa, che permetteva ai riff d’estrazione speed metal dell’ex-chitarrista Destructor (riposi in pace anche lui) di prendere pieghe inaspettate ed era parte della grezza unicità di quel disco, tuttora ineguagliata da qualunque imitazione. È una perfetta chiusura per una release che suona come un vero e proprio regalo ai fans dei Sodom più efferatamente old school. A voler proprio trovare il pelo nell’uovo, mi verrebbe da dire che un suono di chitarra più sporco e “zanzaroso” sarebbe stato più appropriato per la natura primitiva del materiale ma l’esecuzione dei pezzi suona comunque genuina, energica e non artefatta, come siamo ormai abituati ad aspettarci dalle uscite più recenti dei Sodom. La band non è interessata a rimpiazzare le versioni originali di questi brani, com’è spesso il caso con operazioni del genere (vero, fratelli Cavalera?): questa dev’essere vista solo come una celebrazione delle origini di questo leggendario nome del metal tedesco, che ridà attenzione a vecchi pezzi dimenticati dopo tutti questi decenni, magari fornendo alle nuove generazioni una quanto mai necessaria lezione di storia del metal underground. Sicuramente una roba per completisti sfegatati, prendere o lasciare: io personalmente, essendo parte dell’esatta “target audience” del prodotto, la mia scelta l’ho fatta.