Composto da due membri degli Umbra Noctis, black metal band bergamasca dai tratti sperimentali (con influenze post rock e passaggi acustici che si sono fatti più preponderanti soprattutto nell’ultimo full length “Via Mala”, che risale ormai al 2017), Skalf è un progetto musicale dal contenuto molto ben delineato, legato alle vicende della Val di Scalve (in dialetto locale Àl de Scàlf, da cui appunto deriva il nome del gruppo), vallata montana delle Orobie nei confronti della quale Filippo Magri e Tiziano Valente (le menti dietro al progetto) nutrono un legame particolarmente profondo. Questo “Vallis Decia-Le Voci dei Dispersi”, che esce sotto l’egida della prestigiosa Drakkar Productions e vede la partecipazione di diversi ospiti, tra cui Abibial (Imago Mortis), Daniele Valseriati (Tragodia, The Scars In Pneuma), Simone Grazioli (Hell Spet), racconta il disastro causato nel dicembre del 1923 (di cui è da poco ricorso il centenario) dal crollo della diga del Gleno, costruita qualche anno prima in maniera frettolosa e con materiali non idonei, che travolse i villaggi fino al fondovalle (ad ognuno di essi è infatti significativamente dedicato il titolo di una canzone), provocando oltre trecentocinquanta vittime accertate e moltissimi dispersi. L’espediente narrativamente accattivante escogitato dai nostri amici consiste nel fatto di raccontare, con testi in italiano e dialetto bresciano, la devastazione provocata dall’impeto dell’acqua attraverso le voci immaginate proprio delle vittime e dei dispersi, cogliendo gli attimi estremi delle loro vite e quelli immediatamente successivi al trapasso. Un contesto lirico fondamentalmente realistico quindi e molto distante dagli stilemi più tipici, ben rappresentato anche dalla fredda e cruda fotografia in copertina, in un livido bianco e nero, ma com’è la musica? Si tratta di un black metal di matrice atmosferica sostanzialmente tradizionale ma contaminato da influenze più classicamente heavy e da qualche spunto dal sapore vagamente psichedelico, che si manifesta soprattutto nelle parti soliste della chitarra, in primo piano specialmente in alcune code strumentali di più ampio respiro che spesso e volentieri caratterizzano i pezzi, rappresentandone a mio giudizio in alcuni casi i momenti più coinvolgenti (si ascolti a questo proposito ad esempio l’opener “Bueggio”).
Questi elementi si ritrovano in tutti i brani, che trasmettono il medesimo feeling tragico e disperato e possono essere ascoltati come i vari capitoli di un più lungo viaggio, anche grazie ad un’interpretazione vocale uniformemente espressiva. Ci sono rallentamenti non scontati e passaggi più cupi e plumbei così come momenti più carichi di groove (la parte iniziale e centrale di “Mazzunno” è emblematica in questo senso), anche se il riffing e la sezione ritmica non sembrano mai essere eccessivamente “definiti” e si disperdono in rivoli e banchi di nebbia, dando al risultato finale un piglio scarno e grezzo, con poche variazioni ma a suo modo avvolgente e particolare, che tuttavia fa anche perdere i consueti punti di riferimento. Il che potrebbe essere considerato un difetto oppure una scelta voluta, in questo caso senz’altro compatibile con il concept di fondo del lavoro.
Al netto di qualche stralcio forse un po’ meno ispirato e di una registrazione che avrebbe dovuto essere più levigata proprio per sottolineare la componente melodica del songwriting, questo ep resta nel complesso compatto e interessante, andandosi ad inserire a pieno diritto, a parer mio, nell’alveo di quella che potremmo definire la tradizione del black metal del Nord Est italiano, che conta una storia ormai ventennale. Un buon esordio, vedremo cosa combineranno con il debutto sulla lunga distanza.