Ed eccoci qui a commentare l’ennesimo disco raw black metal targato Signal Rex, etichetta portoghese che da sempre sguazza in questo genere di uscite, passando da prodotti più crudi e violenti ad altri che invece privilegiano l’atmosfera, pur conservando suoni assolutamente artigianali e un’attitudine cantinara assolutamente refrattaria a qualunque tentazione modernista. E in questo secondo filone rientrano in pieno i Burial Moon, misterioso progetto del quale, come da copione, sappiamo poco o niente, se non che potrebbe vedere coinvolti musicisti provenienti tanto dal Nord quanto dal Sud Europa, come suggerisce la scarna biografia. E nella descrizione di questo mini d’esordio eponimo, che si presenta con una copertina vagamente burzumiana e canzoni dai titoli spropositatamente lunghi, si sprecano i consueti aggettivi: “cupo”, “etereo”, “mistico”, “decadente”, che per una volta non sono solo inutili ridondanze ma riassumono in maniera abbastanza precisa il contenuto musicale di questo dischetto. I Burial Moon infatti suonano black metal atmosferico, costruendo i vari pezzi su un tremolo insistito e su blast beats senza tregua, che creano un tappeto ipnotico, con poche variazioni (davvero i rallentamenti o anche solo i cambi di tempo si contano sulla punta delle dita di una mano). E già questo potrebbe rappresentare un ostacolo per le orecchie meno avvezze a questo tipo di approccio perché, in questa furiosa tempesta sonora, non risulta affatto agevole seguire le linee melodiche delle chitarre, che pure sono presenti in sottofondo, sommerse da una grande quantità di riverberi e sporcizia. Se quanto appena detto è molto classico e senz’altro famigliare a quanti seguono il filone, la voce rappresenta invece il maggior elemento di diversificazione di un lavoro che altrimenti avrebbe inevitabilmente finito col confondersi con i tantissimi altri dischi riconducibili al medesimo sottogenere, ormai inflazionato oltre misura.
Infatti il cantato è molto distante dal tipico screaming nebbioso e distante che normalmente si associa al black di matrice atmosferica, specie se declinato nella sua forma più raw, ed è costituito invece da clean vocals in stile canto monastico (genericamente inteso), abbastanza sorprendenti (anche se non “nuove” in senso assoluto) e decisamente salmodianti che, con il loro andamento lamentoso e ieratico, contribuiscono a dare corpo all’atmosfera inquietante che aleggia come un corvo nero e foriero di sventura su tutto l’album. Peccato che questa idea, che in teoria avrebbe potuto essere determinante e fare la differenza, resti nei fatti poco più che un’idea perché la registrazione deficitaria, dalla quale questo tipo di lavori sembra davvero non poter prescindere, finisce per penalizzare appunto soprattutto il cantato, soffocandolo e relegandolo ad un ruolo di secondo piano: non sono certamente contrario ad una produzione cruda ed essenziale ma questa scelta non dovrebbe essere “obbligata” dalla volontà di rientrare entro certi confini sonori quanto, al contrario, funzionale all’espressione musicale, e non mi pare che questo sia il caso. Il risultato finale resta comunque non disprezzabile nel suo insieme miasmatico e spettrale ma rimane anche un certo amaro in bocca per un disco che, con un pizzico di coraggio in più, avrebbe potuto essere un piccolo diamante grezzo.