Chi di voi non vede l’ora di ascoltare il nuovo lavoro dei Necrophobic, di imminente uscita? Bene, se proprio non potete resistere ci pensano i Master’s Call, nuova creatura misantropa proveniente da Wolverhampton, Inghilterra, che con il loro disco d’esordio “A Journey For The Damned” ci dimostrano come si può “suonare scandinavo” pur non essendo scandinavi. Con croce rovesciata nel logo e qualche teschio in copertina si vince facile e questo disco in effetti è derivativo come pochi, un trionfo plateale di blackened death metal già sentito e risentito, ma nel 2024 chi realmente inventa qualcosa? Chi ha il coraggio di sperimentare senza aver paura di fallire? A dire la verità qualcuno c’è ma nella maggior parte dei casi ci propone “cose” senza capo né coda e quindi gli inglesi, che già navigano nell’emisfero underground locale da anni, hanno preferito andare sul sicuro e tirare fuori quaranta minuti che ricalcano in tutto e per tutto le orme dei pionieri del genere, dal riffing alle linee vocali alle atmosfere, passando però per una produzione pulita e potente (tutt’altro che underground), che mette in luce l’abilità tecnica di questi lupi solitari. Quando ci si confronta con dischi simili è facile farsi prendere da una sorta di fastidio dovuto all’atteggiamento eccessivamente reverenziale verso band storiche ma in questo caso abbiamo a che fare con un lavoro suonato talmente bene, accattivante e perfino ruffiano, tanto da farci superare ogni pregiudizio spianando la strada a un’obbiettiva analisi dell’album in sé, senza troppi paragoni (che possono avere un senso ma siamo sinceri: in circa quarant’anni di metal estremo è difficile non trovare similitudini tra un disco e un altro). Tuttavia qualche accostamento dobbiamo pur farlo e, senza menzionare i già citati Necrophobic, possiamo dire che qui abbiamo un mix letale di Watain, Celtic Frost e (perché no?) i Behemoth più pesanti, con qualche sfumatura più teatrale di certi Cradle of Filth.
Mescolando a dovere questi ingredienti i Master’s Call riescono a creare un debutto che unisce nostalgici e novizi grazie a un sound paradossalmente fresco e ispirato, elegante ed esplosivo, con buona pace di chi ha smesso di cercare nuovi gruppi verso la fine degli anni novanta. Death metal che strizza l’occhio al black, senza dimenticare il thrash più violento, ed una qualità molto elevata in tutti i sette brani, con alcuni picchi di eccellenza. In particolare l’opener “All Hope In Fire”, la seguente “Beyond The Gates” e “Blood On The Altar” (dove l’influenza necrofobica è chiaramente palese) ci presentano una band che, se da una parte ha totale riverenza nei confronti di una certa frangia del metal estremo, dall’altra è riuscita a unire tutti i puntini, coniando un disco che dal punto di vista compositivo ed esecutivo ha poco da invidiare a quelli editi oggi da band più longeve e blasonate.
La pomposità di certi arrangiamenti e i preziosi guitar solos (come quello della conclusiva “Pathways”) mettono inoltre in luce tutto il gusto di una band che, se continuerà su questa strada, aggiungendo qualche elemento che possa rendere il sound più distintivo, potrebbe diventare una grande sorpresa. Di sicuro non abbiamo tra le mani un capolavoro ma se vogliamo ascoltare qualcosa in apnea, senza riprendere fiato, tra una craniata al muro e un sorso di birra, tra un sospiro di nostalgia e uno sguardo all’anno in corso, al momento avaro di uscite degne di nota, “A Journey For The Damned” potrebbe essere il disco giusto al momento giusto.