Credo di poter affermare, con la modestia che mi contraddistingue, di essere stato tra i primi a notare i Ponte Del Diavolo dedicando loro lo spazio che ritenevo si meritassero sul nostro piccolo portale. E quindi, adesso che hanno avuto “successo” e appaiono regolarmente su tutte le riviste e i portali di settore, dovrebbero riconoscermi un giusto emolumento. In ogni caso, avendoli seguiti fin dagli esordi, sono uno di quelli che potrà tirarsela dicendo “erano meglio i primi ep”. Ma in realtà, pure se di acqua sotto i ponti (del diavolo) ne è passata parecchia, non è che i nostri amici siano poi cambiati molto. In fondo sono sempre quelli con due bassi e la cantante con la voce strana, che non si capisce bene cosa dice. E, ci scommetterei una pizza da asporto, sono questi i motivi per cui sono stati scoperti dalla francese Season Of Mist, sotto l’egida della quale viene pubblicata questa loro prima fatica sulla lunga distanza. Anche se, a dire la verità, la firma per un’etichetta prestigiosa e oserei dire “mainstream” (termine che utilizzo senza alcuna accezione negativa), che garantisce una certa visibilità e un buon numero di esibizioni dal vivo in locali di discreta dimensione, è di sicuro un passo importante e qualche cambiamento nell’approccio complessivo della band pare averlo oggettivamente prodotto. Insomma qualche differenza rispetto al passato, sia pure inconscia e non studiata a tavolino, c’è e si vede, o meglio si sente. Intendiamoci, la band torinese continua in sostanza a fare quello che faceva prima e sa fare bene, ovvero un black metal con ampie infiltrazioni doom (o un doom più o meno sporcato dal black metal, fate voi, perché le quantità dei due elementi principali che compongono la loro musica variano da release e release), con influenze vagamente psichedeliche e lisergiche, oltre naturalmente al piglio dark wave, gothic e post punk veicolato dalla voce spiritata di Erba Del Diavolo.
E tutti questi elementi li ritroviamo puntualmente in “Fire Blades From The Tomb”, quindi i fans della prima ora possono stare tranquilli. Quello che si nota di diverso ha a che fare soprattutto con una maggiore levigatezza del suono, una maggior cura degli arrangiamenti e una registrazione pulita e asciutta, di gran lunga meno artigianale di quella che caratterizzava la “Trilogia Del Diavolo”, che pure non era per niente trascurata, specie se paragonata alla media dei prodotti underground, italiani e non solo. In definitiva i Ponte Del Diavolo si sono sgrezzati, sono diventati adulti, hanno acquisito mestiere e consapevolezza, tanto che perfino il cantato di Erba Del Diavolo sembra meno isterico e spigoloso, anche se resta ugualmente suadente e mefistofelico. E però non hanno perso la loro irruenza “giovanile”, né la capacità di essere concisi e di riuscire a dire molte cose attraverso canzoni dalla struttura fondamentalmente scarna ed essenziale, né quell’afflato misterioso e luciferino, marchio di fabbrica concettuale e musicale che sembra unirli a doppio filo alla consolidata tradizione del metal occulto italiano, variamente declinata da Paul Chain in poi. E se l’opener “Demone” è probabilmente il pezzo più diretto e più vicino al recente passato della band, con la sua alternanza tra strofe black quasi alla Darkthrone e ritornello pesantemente doomeggiante, è da “Covenant” in poi che emerge con più evidenza, a mio parere, quella maturazione compositiva di cui parlavo poco fa. Atmosfere dark e un doom di classe, unite a vocals che si fanno a tratti ossessive senza tuttavia smarrire la loro direzione melodica di fondo, come avviene del resto anche nella successiva “Red As The Sex Of She Who Lives In Death”, semi-ballad avvolgente e sensuale, che non rinuncia ad una dose di violenza nella sua parte conclusiva.
Le lunari “La Razza” e “Nocturnal Veil” non fanno altro che confermare questo percorso, e se la prima ha un andamento leggermente più tortuoso e imprevedibile, la seconda è ancora una volta giocata su melodie efficaci e sull’ormai consueta atmosfera goticheggiante, potenziata da sommesse note di clarinetto. Chiudono il cerchio la più accademica ma ugualmente oscura “Zero” e la buona cover di “The Weeping Song” di Nick Cave & The Bad Seeds, che vede la comparsa dietro al microfono di Davide Straccione degli Shores Of Null, la cui voce potente e profonda ben si sposa con quella sghemba e ritualistica di Erba Del Diavolo, e che ci indica da che parte sembrano guardare i Ponte Del Diavolo (anche se il Quartetto Cetra semi-coverizzato in “Sancta Menstruis” era decisamente più ivol). C’è chi li ha paragonati ai Messa, per ovvie ragioni, ma per quanto mi riguarda, più a livello di sensazioni che di vere e proprie influenze, i Ponte Del Diavolo non sono poi troppo distanti da gente come Tiamat, Paradise Lost e My Dying Bride. In realtà poco importa degli accostamenti più o meno azzardati dello scribacchino di turno, quello che conta è che la band italiana, nel salire il gradino che conduce al “mainstream dell’underground”, sembra aver trovato un proprio equilibrio facendo evolvere un sound che mantiene comunque intatte le sue radici e i suoi punti di riferimento. E in fin dei conti, se vengono lodati in maniera pressoch éunanime sia in patria che all’estero una volta tanto qualche motivo ci sarà: per questo mi unisco alle lodi e faccio le cornine (anche se non mi hanno pagato).