C’è tutto un filone, pure abbastanza sviluppato a livello sotterraneo, che unisce sonorità black vecchio stampo a paludose influenze doom e psych, sempre vecchia scuola (tra i maggiori esponenti al momento citerei i Lord Mortvm). Ma questo particolare sottogenere ha probabilmente un padrino, che risponde al nome di Woe J. Reaper. Il musicista norvegese infatti, con il suo progetto solista Furze, mescola in dosi diverse black metal e roba doom/psych anni settanta da più di un ventennio, in maniera piuttosto personale, restando pur sempre fedele ad una concezione underground, con tutto ciò che ne consegue anche in termini di produzione. La creatura Furze è giunta ormai al non trascurabile traguardo dell’ottava fatica sulla lunga distanza e prosegue senza tentennamenti il suo percorso acido e lisergico (anche se il nostro amico ci tiene a precisare che il suo black psych metal non significa semplicemente “black metal drogato”, qualunque cosa voglia dire), con i fantasmi di Black Sabbath, Saint Vitus e Iron Butterfly, ma anche di Bathory, Hellhammer e primi Darkthrone, sempre al proprio fianco. Questo “Caw Entrance”, che esce per la piccola Devoted Art Propaganda, ripropone quindi tutte le caratteristiche salienti del Furze sound, sviluppandole in brani quasi sempre piuttosto lunghi e caratterizzati da ampie fughe strumentali, nelle quali diventano protagoniste assolute le chitarre che si intrecciano in trame bizzarre e drogate (io lo dico lo stesso perché in effetti è il primo aggettivo che mi viene in mente), come avviene in maniera emblematica in “Post Mortem Trippin’”, cuore pulsante dell’album e non a caso scelta come singolo, o anche nelle conclusive “You Shall Prevail” e “Avail The Autocrat Of Evil”, quest’ultimo un vecchio pezzo rivisitato.
Forse rispetto al passato le canzoni presentano una struttura più compatta e meno evanescente ma in fin dei conti il marchio di fabbrica resta quello, con le influenze settantiane che incontrano il raw black metal come due vecchi amici che si ritrovano al solito bar e, tra un bicchiere e l’altro, rievocano i bei tempi andati, magari immaginandoli anche più belli di quanto in realtà non fossero. Anche il cantato mantiene una particolare impronta, con la voce che è una sorta di rantolo ringhioso, veloce, demoniaco e pieno di riverberi. La resa sonora primitiva e il piglio fondamentalmente retrò si uniscono ad un costante afflato sperimentale, che in effetti il progetto mantiene intatto fin dagli esordi, e a un concept a base di allucinazioni e disorientamento esistenziale, e tutto ciò ha indubbiamente il suo fascino, anche se per qualcuno potrebbe risultare irrimediabilmente fuori dai canoni ordinari o quanto meno poco “true”.
Ho già accennato alla registrazione artigianale ma a questo proposito lascio la parola a Woe J. Reaper, che ci spiega meglio come questo disco dovrebbe essere ascoltato per goderne appieno ogni sfumatura: “Non ti piace la produzione? Oh, buona fortuna! Coerentemente consiglio a tutti gli ascoltatori di prendere un bel paio di cuffie e ascoltare l’album in questo modo. Nessuna sessione di ascolto in sottofondo funzionerà e nemmeno il tuo stereo, strano ma vero: in entrambi i modi sarà impossibile fissare dettagli particolari (…). “Post Mortem Trippin’” è l’esempio più evidente in cui le chitarre suonano cose diverse, totalmente mono su ciascun lato sinistro/destro. L’equilibrio è possibile raggiungerlo solo se si scelgono le cuffie!”. Ma insomma, che lo ascoltiate in cuffia o no, questo è davvero un buon lavoro, che ci riconsegna un progetto a suo modo originale e decisamente più “uncompromising” di tanta roba black fatta con lo stampino che oggi viene osannata senza motivo.