Nonostante porti il nome di una parte del corpo femminile decisamente interessante, il progetto portoghese Mons Veneris è dedito al black metal più grezzo, oltranzista, raw, di culto e chi più ne ha più ne metta. Come da copione non si sa nulla su chi siano effettivamente i membri della band ma c’è da scommettere che, come da copione, siano musicisti appartenenti alla scena estrema lusitana, probabilmente impegnati in decine di altri gruppi; come da copione sono incredibilmente prolifici e hanno pubblicato innumerevoli uscite, tra album, split, demo e raccolte varie; e, come da copione, facevano parte con altri gruppi locali, dei quali ci siamo pure occupati sporadicamente su queste pagine virtuali, di un circolo musicale-esoterico chiamato, con grande sforzo di fantasia, Black Circle, e dico “facevano” perché pare che il circolo si sia ormai sciolto. Quindi, secondo voi, come suonerà mai questo “Ascent Into Draconian Abyss”, sesto full length dei nostri amici? Domanda retorica considerate le premesse e considerato il fatto che la scena raw black metal di quelle parti, sponsorizzata senza mezzi termini e con ammirevole impegno dalla Signal Rex, si è da tempo guadagnata un posto speciale, insieme a quella americana, nei cuoricini neri di tutti i maniaci di quel genere di sonorità. Sonorità che naturalmente ritroviamo in questo disco, sorta di sunto della carriera del gruppo, che ci propone un revivalistico esercizio di stile non privo tuttavia di elementi interessanti.
A darcene prova è la title track, della durata di oltre venti minuti, che passa in rassegna varie sfumature di raw black metal: dal classico primitivismo martellante a momenti più malinconici e medievali, dal ronzio tipico delle chitarre in tremolo alla furia caotica di passaggi più black-thrash oriented; il tutto con un piglio assolutamente vintage, anche e soprattutto a livello di registrazione, che ricorda molto da vicino le celeberrime Légiones Noires francesi o i Darkthrone del periodo true black metal, inesauribile fonte d’ispirazione per gruppi sparsi in tutto il mondo. Un bel compendio quindi, suonato con mestiere ed esperienza, che trova riscontro anche nei pezzi successivi, dal minutaggio meno corposo ma che viaggiano in sostanza sugli stessi binari compositivi.
Siccome però non abbiamo quasi certamente a che fare con gente di primo pelo c’è anche, e per fortuna direi, un tocco personale: saranno le vocals, che alternano uno screaming rauco ad ampi squarci declamati in clean, con una voce salmodiante da ubriaco vicina a certe cose degli Isengard; saranno le influenze vagamente settantiane e gli squarci acustici della strumentale conclusiva “Chant To The Unknown”; sarà la capacità di mettere comunque insieme con criterio e consapevolezza i luoghi comuni del genere; sarà qualche macabra melodia che emerge dalla sporcizia generale o qualche momento più atmosferico qua e là; sarà quel che sarà, fatto sta che il disco si porta a casa la pagnotta senza troppi problemi e potrebbe stazionare nella vostra playlist per qualche tempo, anche se magari di base doveste preferire un altro genere di approccio alla materia black. In fin dei conti le ammuffite catacombe portoghesi producono da anni queste nefandezze sonore e a noi va benissimo così.