Bisognerà cominciare a porre una certa attenzione alla scena del Sud Est Asiatico, che sta iniziando pian piano ad emergere, fra Malesia, Indonesia, Thailandia e pure Vietnam, paese d’origine dei qui presenti Imperatus. Curioso notare che le band impegnate a suonare la nostra musica preferita in questa parte di mondo si rifacciano quasi completamente al black metal svedese (vedi i malesiani Mantak e Kilatus o i thailandesi Amorphous Dominion), mentre difficilmente ricalcano quello norvegese. Forse, introiettare l’oscurità di un paese come la Norvegia per gente che vive in luoghi in cui l’inverno neanche esiste risulta un passo troppo difficile da compiere. Black metal svedese si diceva, quindi con i soliti nomi di riferimento a cui ispirarsi, in primis ovviamente e inevitabilmente i Marduk. Il combo di Morgan è chiaramente la stella polare della band vietnamita e basterebbe sentire gli attacchi di “Armored Beast” e della title track per accorgersene. Gli Imperatus però non si limitano a copiare senza qualità e fantasia come tanti altri, anzi. È vero, tanti riff sono chiaramente derivativi, ma il songwriting è sempre ispirato, articolato e spesso anche sorprendente.
Non è raro trovarsi infatti di fronte a passaggi d’ispirazione più thrash, delle volte quasi groove, mentre di quando in quando fa pure capolino una tastiera, che per qualche motivo si mischia perfettamente col tutto, dando una certa epicità e melodia ad una musica che resta comunque veloce, ferale e aggressiva. Le canzoni, pur essendo perfettamente distinguibili l’una dall’altra, possono vantare un’alta qualità media che non cala per tutta la durata, anche grazie un minutaggio contenuto (poco più di trenta minuti totali per nove canzoni), perfetto per questo tipo di dischi.
Gli Imperatus dunque mettono in mostra anche una certa personalità e una perizia tecnica non scontata, in un esordio che ci sentiamo di promuovere a pieni voti, al netto di qualche inevitabile ingenuità e di quella che sembrerebbe essere una drum machine. Nessun membro ufficiale o guest viene infatti accreditato per la batteria, il che farebbe pensare ad una soluzione virtuale. Effettivamente il suono ogni tanto ha un che di artificiale ma i pattern sono talmente buoni che verrebbe naturale pensare ad un batterista umano. Da segnalare in positivo anche la prova del vocalist e mastermind Tan Dat “Nattsvärd” Nguyen, dotato di uno scream piuttosto acuto, capace di unire espressività e aggressitivà. Se siete amanti del black e death metal anni novanta, sponda Svezia, di sicuro dovreste dare una possibilità a questi vietnamiti, se la meritano tutta.