I Dødsferd fanno parte di quella schiera, in verità assai nutrita, di gruppi greci che suonano come se fossero scandinavi, tra cui possiamo annoverare gente come Lunar Spells, emersi abbastanza di recente, o i più stagionati Sad. Pure la band di Wrath, che resta la mente dietro alla creatura Dødsferd, anche se coadiuvato dal fido Neptunus al basso ormai da molti anni, non è certo di primo pelo, anzi è sulla piazza praticamente da vent’anni ed è di quelle band che basta distrarsi un attimo che ti cacciano fuori album, ep, split e demo come se piovesse. E infatti i nostri amici sono arrivati all’invidiabile traguardo della dodicesima fatica sulla lunga distanza, senza in sostanza deviare mai dalle coordinate stilistiche del black metal puro e canonico espresso fin dagli esordi in dischi come “Fucking Your Creation” e “Cursing Your Will To Live” (due album usciti entrambi nel 2007, che seppero dire la loro in tempi di revival true black metal e che ancora oggi hanno il loro bel perché), pur navigando con costanza in lungo e in largo tra le varie sfumature del genere e concedendosi di tanto in tanto qualche scappatella, come ad esempio la collaborazione acustica con Sarvok. E quindi cosa aspettarsi da questo nuovo lavoro? Ovvio, niente di più e niente di meno che black metal che più black metal non si può, in una sorta di summa retrospettiva della carriera della band, considerato anche il titolo autocelebrativo che rimanda allo pseudonimo del mastermind del progetto. E in effetti in questo disco ritroviamo tutte le caratteristiche salienti del sound dell’ensemble ellenico che, a essere onesti, non si è mai distinto per particolare originalità o freschezza compositiva ma ha comunque saputo costruirsi con perseveranza nel corso degli anni una sua nicchia sonora nella quale potranno facilmente trovare un famigliare riparo tutti gli aficionados del true black metal di stampo scandinavo (e in particolare norvegese, con qualche sfumatura più melodica), per certi aspetti raccogliendo forse anche meno di quanto probabilmente avrebbe meritato.
La band recupera quindi ancora una volta le proprie radici e suona con innegabili esperienza e mestiere: credo che davvero nessun ascoltatore, per quanto navigato, potrà trattenersi dal muovere la testa in segno di approvazione all’ascolto di brani come l’opener “Restoration Of Justice” o la successiva “Decay Of Sanity”, che sono a mio parere gli episodi più riusciti del lotto, dove emergono allo stesso modo l’inconfondibile eredità darkthroniana e una certa tensione melodica, accompagnate da qualche incursione in territori più marcatamente black n’ roll, altra influenza che fa capolino costantemente nei lavori dei Dødsferd ma che tutto sommato in questo disco resta più contenuta che in passato. Se devo essere sincero Wrath ha sempre avuto la tendenza ad annacquare leggermente la zuppa, scrivendo pezzi più lunghi del necessario, che da un certo momento in poi sembrano trascinarsi perdendo di vista il main riff o la struttura ritmica che te li aveva fatti inizialmente apprezzare.
E questa tendenza c’è puntualmente anche qui, con canzoni dalla durata media abbondante e un paio di brani di oltre dieci minuti che avrebbero richiesto qualche sforbiciata (e pensate che nella versione vinile c’è una bonus track abbastanza inutile di voci e campionamenti, per uno sbrodolamento totale di oltre tredici minuti): laddove invece la band si concentra e sviluppa bene una manciata di idee, trattenendo il proprio impulso creativo in tempi più ristretti, riesce secondo me anche ad esprimersi meglio e a risultare più incisiva, come avviene ad esempio in “Spiritual Lethargy”, canzone molto piacevole pur nella sua assoluta prevedibilità. Ma non stiamo a fare troppo gli schizzinosi: in fondo “this is black fucking metal”, o no? E quindi direi che va bene così: i Dødsferd si confermano dei gregari di lusso, questo disco piacerà a chi li ha seguiti e potrebbe essere l’occasione per cominciare ad ascoltarli per chi ancora non li conosce.