I Black Dawn, che in realtà erano già attivi fin dai primi anni novanta con il moniker Nocturnal Feast, fecero il loro esordio sulla lunga distanza nel 2001 con l’album “Blood For Satan”, una sporca mazzata made in Finland che seppe dire la sua in un momento in cui il revival true black metal sembrava essere piuttosto in voga e produceva una manciata di dischi davvero degni di nota. Poi sparirono dalla circolazione per diversi anni, forti del proverbiale alone “di culto” acquisito con quella prima release. Dopo aver modificato il nome, aggiungendo un bel “true” che non guasta mai (il vero motivo fu una questione legale con una band heavy metal americana), i nostri amici tornarono a far sentire la loro voce solo nel 2016 con il successivo “Come The Colorless Dawn”, album che segnò una sterzata stilistica abbastanza evidente rispetto all’ortodossia del debutto, inglobando influenze più “industrializzate” senza perdere un approccio di fondo disumano e feroce. Ed ora è la volta di questo terzo vagito infernale, che si presenta con una copertina dall’impronta quasi psichedelica: non possiamo quindi dire che l’ensemble finlandese guidato dal cantante e fondatore Wrath ed i cui membri militano o hanno militato in realtà come Enochian Crescent, Trollheims Grott, Chamber Of Unlight ed altre, sia particolarmente prolifico. Ma questo non è necessariamente un male, specie se si preferisce centellinare le uscite discografiche dedicando loro la cura e l’attenzione che meritano.
E quindi come suona questo nuovo album? È sempre black metal naturalmente ma un black metal evoluto, potrei dire “moderno”, in primis per quanto riguarda la produzione. Un black metal che adotta spesso e volentieri soluzioni più studiate e strutturate e in alcune occasioni si fa trasportare, come accadeva nel disco precedente, in territori addirittura “industriali”, nel significato più lato e generico del termine, senza tuttavia rinunciare a mettere in mostra le proprie radici, che affondano essenzialmente pur sempre nel sound classico degli anni novanta. Un bel mix quindi, che non rinuncia neppure a qualche apertura melodica di più ampio respiro e a una spolverata di sintetizzatori qua e là (in verità le tastiere quando entrano in scena si rivelano veramente efficaci) e che potrebbe potenzialmente accontentare una platea piuttosto vasta di ascoltatori, se non fosse che i nostri amici si muovono e si muoveranno comunque entro i confini dell’underground.
Già l’incipit dell’opener “Algol”, con le note stonate di pianoforte che fanno da apripista ad un riff granitico e piuttosto tradizionale, rivela la natura duplice di questo album, da un lato più selvaggia e dall’altro più meditata, che si mantiene tale per tutta la sua durata. E così accanto a brani decisamente “in your face”, come ad esempio “Fish, Sin And Soma” e “Palace Of Ash”, che fanno emergere una furia in ogni caso sempre glaciale e in qualche modo controllata, ne troviamo altri più pacati e insinuanti, come “Night And Names”, che si concentrano su tempi più rallentati e danno corpo con efficacia ad un’atmosfera sinistra e sulfurea. La palma del miglior pezzo però se l’aggiudica a mio parere “Worlds In The Mirror”, mid tempo dal piglio “meccanizzato” dove viene in superficie meglio che altrove quell’equilibrio tra classico e moderno che i True Black Dawn hanno probabilmente cercato, consapevolmente o meno, di realizzare in questo lavoro. Se questo è il punto focale dell’album, si può dire che il risultato finale ricorda in diversi momenti alcune cose dei Satyricon degli anni duemila o band forse meno note come gli svedesi Bloodline. Siamo di fronte al miglior disco di questo gruppo? Sinceramente non lo so, solo il tempo potrà dirlo, di sicuro “Of Thick-Circling Shadows” è un lavoro interessante e maturo, davvero niente male per una band che in fondo è sulla scena da oltre venticinque anni.